LA SCALA DI DON TANO
(racconto breve)
Nelle rigogliose campagne pattesi
esistono tantissimi casolari abbandonati che un tempo furono luogo di grande
produttività e di aggregazione familiare.
Qualche vetusto fabbricato è ancora abitato da testardi anziani che continuano
a coltivare il loro piccolo orto per amore verso quella terra che tanto
generosamente li aveva svezzati, cresciuti e formati.
Su una delle colline che sporgono
come terrazze sul golfo di Patti e sulle isole Eolie, abitava don Tanu, arzillo
ottantunenne, per gli altri anziani Tanu u camperi, per i più giovani
semplicemente u ‘zu Tanu. Aveva un carattere taciturno ma forte; da campiere
agiva sui fondi a lui affidati come un dittatore, ma quando era a tavola con
gli amici, don Tanu era un uomo di compagnia, allegro. Si faceva volere bene,
diventava affettuoso quando trattava con
i bambini; per loro avrebbe fatto la qualunque ed a loro dava tutto ciò che
poteva concedere. Ecco perché, nonostante tutto, riusciva ancora a mantenere
buoni rapporti con tutti coloro che a lui si accostavano.
Il casolare aveva tre portoni al piano
terra: da uno si accedeva a un vano nel quale, una vecchia cucina a legna, un
vecchio ma massiccio tavolo quadrato e quattro sedie, costituivano l’arredamento,
completato da due credenze. Su di esse stavano in bella mostra
due pentole, una di creta che aveva almeno 50 anni e veniva dalle
fornaci di Marina di Patti, una di alluminio con qualche ammaccatura e col
fondo affumicato, inoltre una padella con il manico rotto, due mestoli di legno
e quattro piatti bianchi con decori blu. Una scala di legno conduceva al piano
superiore, dove in un unico vano, troneggiava un vecchio letto con baldacchino,
ma senza veli, due comodini, due sedie e un vecchio massiccio armadio a due
ante, l’armuarru, come diceva don Tanu.
Dal secondo portone si accedeva al
vecchio palmento, ancora tutto montato e funzionante, anche se la polvere e qualche filo d’erba tradivano gli
anni del suo pensionamento.
La terza porta dava accesso a un
locale, una volta adibito a stalla, oggi vuoto e stranamente ordinato e pulito;
una vecchia scala a pioli conduceva a un soppalco a cui aveva accesso soltanto
don Tano. A nessuno dei suoi ospiti, negli ultimi quarant’anni, era stato
concesso di salire per quella scala per espresso divieto dello stesso padrone
di casa. Questo divieto, spesso manifestato con toni anche duri, aveva fatto
insorgere un’enorme curiosità. Spesso quando qualcuno, scherzando e sfottendo,
insisteva per salire nel “pagghiaru segretu”,
così ormai veniva definito il soppalco, don Tano si tramutava in viso dalla
rabbia; gli occhi si infuocavano, le
guance diventavano viola, le bianche sopracciglia sembrava aumentassero di
volume e la scolorita coppola sulla testa veniva girata nervosamente da
destra a sinistra.
Si racconta che più di una volta,
ragazzi curiosi avevano tentano di abbordare quel luogo ma l’attento vegliardo
li aveva messi in fuga minacciandoli anche con il fucile da caccia che ,per
abitudine, portava sempre dietro… scarico. Per non correre rischi, negli ultimi
anni aveva rimosso la scala e la portava in cucina in modo che nessuno, neanche
di notte, potesse tentare un blitz.
La diffusa cultura, il rispetto per
le leggi e le Istituzioni cui sono stati da sempre abituati i Pattesi, erano e
sono i motivi per cui in questo territorio la mala genìa non è mai allignata e
questo ha impedito il sorgere del fenomeno della delinquenza. Niente quindi
ladri e ladruncoli dai quali don Tano avrebbe dovuto difendersi ma solo curiosi
e pettegoli, categorie che lui considerava più pericolose dei ladri.
Quella scala era mantenuta come un
reliquario, sempre verniciata e lucida, controllata e revisionata ogni
settimana ma solo quando era sicuro che nessuno lo avrebbe interrotto con una
visita, spesso poco gradita.
Una volta la settimana, una
settantenne signora, da tempo innamorata di lui, ma mai oggetto delle sue
attenzioni, lo andava a trovare e con la scusa di aiutarlo, dava una pulitina all’alloggio. La musica era
sempre la stessa “Tanu se m’avissi
maritatu 40, 30 anni fa oggi stava ccà cu te, ti faceva a spisa, ti cunzava u
lettu, ti…” Don Tanu, che non voleva sentire questa monotona litania settimanale, rispondeva: “Avi
a essiri di Patti la pignata pi veniri
la minestra sapurita” e gli porgeva la pentola di creta per la pasta o il
minestrone di fagioli, mettendo fine alla discussione. La signora Nunzia, così
si chiamava, non si dava pace, non capiva come un bell’uomo come Tano non si
fosse sposato, eppure su di lui si raccontavano avventure amorose che avevano
fatto scalpore. Da buon campiere pare che oggetto delle sue “attenzioni”
fossero le donne che lavoravano nei campi, nella vigna, nell’uliveto. Qualche
diceria gli attribuiva dei figli che ignari padri hanno poi riconosciuto e cresciuto
con sua grande soddisfazione.
Quell’unico giorno della settimana
che i due pranzavano insieme, era una strana festa. Entrambi felici di essere
in compagnia, al tavolo quadrato stavano seduti uno di fronte all’altra e
consumavano il pasto senza dire una parola. Nunzia ogni tanto alzava gli occhi
e guardava quell’uomo che, nonostante le rughe che gli incidevano il viso e la
fronte, manteneva i suoi bei lineamenti.
Tano, sentendosi osservato, alzava per un attimo gli occhi, e dopo aver guardato Nunzia ed aver accennato un forzato sorriso, ritornava
repentinamente sul piatto. Solo in quell’attimo lei riusciva a vedere quegli
occhi azzurri, dai quali era rimasta attratta anche dopo sposata, ed avrebbe
voluto mangiare ogni giorno con lui, solo per godere di questi pochi secondi di
ebbrezza.
Una delle mattine dedicate alle
visite da Tano, Nunzia trovò la porta chiusa, bussò, ma non rispose nessuno,
eppure lui doveva essere li dentro sicuramente perché non aveva in programma di
uscire. Tano programmava tutto settimane prima e, salvo imprevisti, lei lo
avrebbe saputo. Preoccupata andò nella stalla per cercare la scala e tentare di
salire nel balcone, ma la scala non c’èra. Di corsa andò in un casolare più
avanti dove degli operai stavano facendo dei lavori e chiese aiuto. All’operaio
che salì sul balcone non si presentò nulla di strano, Tano era a letto come se
dormisse; bussò sui vetri ma non successe nulla. Su sollecitazione di Nunzia,
sempre più agitata, l’uomo ruppe il vetro ed entrò seguito dalla donna. Tano
era immobile in un mare di sudore ma respirava. Subito chiamarono in aiuto
anche gli altri operai, che accorsero con generosità e quindi il 118. L’ambulanza, che arrivò dopo pochi
minuti, lo portò al pronto soccorso, da dove , dopo le prime
cure, venne trasferito in cardiologia. Dopo poche ore il pericolo era passato,
ma Tano fu trattenuto in UTIC.
Durante la degenza affidò la custodia
della casa a Nunzia, rinnovando la raccomandazione di non salire sul soppalco;
“Varda che haiu tutto signaliatu, se ‘nchiani dda suopra minn’addunu subitu e
ni sciarriammu”, le disse.
Questa ennesima raccomandazione fece
acuire però in Nunzia la curiosità e appena a casa, prese velocemente la scala
e salì sul “pagghiaru segretu”. Niente, li sopra non c’èra nulla; era
pulitissimo, anzi lucido, nemmeno un filo di paglia, né una foglia. Sulle
pareti nemmeno un foro che potesse far pensare a un nascondiglio. Nunzia passò
più di due ore a ispezionare ogni
angolo, ogni piccolo spazio o interstizio del tavolato, ma non trovò nulla. Delusa
scese, tanto non c’èra nulla da lasciare in disordine. Ma se non c’èra nulla,
cosa poteva avere segnato Tano? Prese la
scala per riportarla in cucina, quando
si rese conto che la stessa era strana, era leggera, troppo leggera per essere di
legno e pure troppo fredda. Appena in
cucina la posò per terra e la ispezionò con cura. Sulla testa dei montanti riuscì a togliere due specie di tappi. La
scala era in alluminio foderata ad arte di una materia plastica che le dava il
colore e la forma del legno. Dentro il primo montante, che altro non era che un tubo, c’erano tante
foto di donne, giovani, belle e meno belle ma formose, sul retro nome e cognome
e, solo in alcune, un secondo nome. Nunzia le tirò tutte fuori e le posò sul
pavimento. Alcune sembrava di
conoscerle, altre non sapeva nemmeno chi fossero. Rinviando a dopo
l’approfondimento dell’indagine che da donna innamorata e gelosa ormai avrebbe
voluto fare, aprì l’altro montante e con grande sorpresa tirò fuori soldi, tanti
soldi, banconote da cinquanta e da centomila lire; tirò fuori quelli che poté,
poi prese la scala la riportò nella stalla, salì sul soppalco, la girò
sottosopra e battendola fece uscire tutto ciò che custodivano i due montanti,
quindi ridiscese, raccolse tutto e ritornò in cucina, si chiuse dentro e
cominciò a contare i soldi. Erano poco più di sessantacinque milioni. Rimase
immobile per un po’ a guardare tutto quel ben di Dio. Poi vide una busta, la
aprì; dentro vi erano una serie di nomi, esattamente dodici, con sotto il nome
e il cognome di una donna maritata con il nome del marito. In fondo queste parole: Se stai leggendo sta littira voli diri che
io ho già tri palmi di terra i supra; con stu atto di curiosità ti sei
autonominato esecutore delle mie ultime voluntà e quindi a te dogno le seguenti
disposizioni: i sordi che hai trovato, li devi spartìri in parti uguali alle famigghie
di cui ci sunnu i nomi supra; quindi una volta fattu chista cosa in maniera
corretta, vai dal nutaru, dicci tutto e fa in modu che iddu pò controllari. Una
volta verificatu la correttezza dell’esecuzione del mio vuliri , il notaro ti
consegnerà chiddu ca resta dei miei beni
dai quali ti arriverà un vitalizio che dovrai dividere con le succitate
famigghie e fino a quando non mi raggiungerai ca sutta, Stai attento pirchì se
tu pinsassi di fare il furbo, ti perseguiterò per tutto il resto della vita e
ti tirerò li pedi mentri ca dormi e ti raccumannu sii omu, veru pattisanu,
tutto chiddu ca liggisti tegnitillu pi te.”.
Nunzia sudava freddo, non avendo il ruolo che le imponeva la lettera, cercò di
mettere tutto com’èra prima, ma era cosciente di non esserci riuscita e quindi
una certa ansia la stava assalendo. Ora capiva a cosa si riferiva Tano quando
diceva di avere tutto segnato. Il fatto che lui non avesse parenti, in caso di
disgrazia, pensò la donna, l’avrebbe avvantaggiata ora che sapeva tutto.
Confidando sulla fortuna, seguì con
l’amore che le era solito la degenza di Tano e, quando fu dimesso, la sua
convalescenza. I medici avevano raccomandato a Tano di non sottoporsi a sforzi
fisici, ma nonostante ciò, testardo com’èra e
lavoratore di razza, continuava
ad accudire l’orto e mal accettava la vicinanza, le attenzioni e le
raccomandazioni amorevoli di Nunzia.
Una mattina la donna,trovò la porta
della cucina aperta, e non sentendo
alcun rumore, cominciò a chiamare ad alta voce senza ricevere alcuna risposta.
Si mise a girare nell’orto e trovò Tano
riverso ma con il viso rivolto vero la
Cattedrale normanna di S. Bartolomeo che, dalla collina di fronte guardava
quella proprietà ed era la sua prima
interlocutrice giornaliera. Stavolta, Nunzia, avrebbe dovuto eseguire il
testamento. La poca acqua che scorreva nel torrente Provvidenza, continuava
indifferente la sua corsa con i soliti ritmi, ignara del fatto che da quella
mattina sarebbero state di meno le
persone le cui fatiche giornaliere venivano
addolcite dalle sue variabili
melodie.
Una volta tumulato il povero Tano, in
un loculo concesso a prestito dal comune, la donna riaprì la scala e diede
corso alle ultime volontà di quell’uomo che il destino aveva voluto legare a
lei in una maniera così strana.
Finite le consegne alle famiglie
elencate nella lettera senza trovare alcuna difficoltà e ricevendo in cambio solo un grazie e un
generico impegno a portare dei fiori sulla tomba del generoso donatore, Nunzia
andò dal notaio che, dopo aver verificato l’esatta esecuzione della volontà del
de cuius, passò alla seconda parte del testamento riconoscendo, in mancanza di
eredi, Nunzia come unica persona che avesse diritto a ereditare i beni di
Tano. Il Magnifico procedette quindi e
cominciò ad elencare: Lascio il casolare
e il fondo sul quale insiste, due appartamenti a Patti centro, tre magazzini a
Patti centro, un villino a Mongiove, un appartamento a Messina , un
appartamento a Roma Parioli… Nunzia
era scioccata, non riusciva ad aprire bocca. Infine il notaio lesse l’ultima
parte del documento: “Ed infine a te mia
cara Nunzia, perché so che sarà la tua curiosità di donna innamorata ad averti
portato qua, faccio dono della somma di lire cinquanta milioni che userai per
vivere tranquilla da sola e con una parte per acquistarmi un sepolcreto nel
quale vorrei essere tumulato, dopo essere stato tolto da quell’orrendo vecchio posto prestato, e nel quale potrai
raggiungermi serenamente fra cento anni. Tengo a precisare che sono soldi
guadagnati onestamente che provengono dalla
gestione delle proprietà degli
altri che, tanto, non mi hanno mai retribuito.
Un’altra cosa Nunzia: iò sacciu ca i pattisani hanno tanta fantasia
quando debbono pittuculiari, cerca di non ti iunciri a iddi; in fin dei conti
pi na vita ti sentisti comu a mia mogghi e accussì ti devi cuntinuari a
cumpurtari ”. A Nunzia vennero meno
le forze e si accasciò. Si svegliò poco dopo in un letto dell’ ospedale “ Barone Romeo”dal quale, dopo qualche ora,
uscì per riprendere quella vita che aveva sognato con il suo Tano e che lo
stesso , da morto, le consentiva di vivere da… signora. Forse era stato
veramente innamorato segretamente di lei e solo di lei, per questo, in fin dei
conti, l’aveva sempre rispettata
.
.
FINE
DORINO
(favola)
C’era una volta.
Anzi no. Intorno alla mia città c’è
un monte, non molto alto, ma bello; tutto pieno di alberi quasi sempre verdi.
In autunno qualcuno diventa giallo per via del colore delle foglie che cadono,
ma non sta male, anzi aggiunge altro colore a quelli che già ci sono.
Questo monte io l’ho sempre chiamato
“Mio”; non perché è di mia proprietà, magari, ma solo perché ogni mattina,
appena mi svegliavo da bambino, aprendo la finestra, il primo a darmi il buon
giorno era lui.
Mio mi sembrava un grosso animale
amico, accucciato davanti a casa mia come se qualcuno lo avesse collocato la
per fare la guardia, per difendermi; ed io approfittando della sua sontuosa e
silenziosa bontà, mi sentivo sicuro.
La mattina, da dietro i vetri ci davamo il buon giorno, la sera le molti luci che evidenziavano la sua presenza in lunghezza ed in altezza mi davano la buona notte, ad una ad una, lentamente, fino a quando solo la luna e le stelle ne disegnavano il profilo.
La mattina, da dietro i vetri ci davamo il buon giorno, la sera le molti luci che evidenziavano la sua presenza in lunghezza ed in altezza mi davano la buona notte, ad una ad una, lentamente, fino a quando solo la luna e le stelle ne disegnavano il profilo.
Ogni giorno che passava si Mio spuntavano nuove case. A
me sembravano brufoli, piccole ferite
che si aprivano in mezzo a quei colori sempre meno verdi e sempre più grigi.
Io sentivo che Mio soffriva e
qualche volta era come se mi chiedesse aiuto.
Per Mio gli alberi erano come sono
il pelo o le piume per gli animali, e
ogni qual volta, una ruspa iniziava un lavoro era come se un rasoio gli
stesse radendo i peli.
Ma io che potevo fare? Solo un
miracolo poteva fare rinsavire gli uomini ….oppure una magia poteva accendere
la speranza di sistemare le cose in modo che Mio e gli uomini potessero trovare
una soluzione equa.
Un giorno mi ricordai di una favola
che mi raccontava la mia nonnina.
Dovete sapere che la mia nonnina era
una meravigliosa vecchietta con i capelli lunghi, tutti bianchi, di un bianco
brillante che sembrava fatto apposta dal maestro parrucchiere, e due occhi
celesti, belli dolci, più dolci di un bignè. Mi voleva bene la mia nonnina e
quando l’andavo a trovare, ogni domenica, mi faceva trovare le castagne secche,
le noci, le noccioline, i fichi secchi; li teneva chiusi in una cassa. Erano i
nostri dolci e li custodiva gelosamente solo per noi, per i suoi nipoti.
Allora questa mia nonnina mi
raccontò che una volta sulla spiaggia della Plaja, comparve uno strano pesce,
grande quanto un gatto, di colore rosa con sfumature bianche sulla pancia;
molto bello a vedersi. Se ne parlò parecchio fra i pescatori perché non si era
mai visto un pesce così nei nostri mari. Ma siccome sembrava morto nessuno gli
dedicò qualcosa più di uno sguardo e di una breve considerazione sul colore.
Vicino la spiaggia, dove c’era un
agrumeto di aranci che qui ancora si chiama giardino, abitava in una vecchia
piccola casa un signore anziano, bassino, capelli bianchi e un po’ lunghi,
vestiti vecchiotti ma puliti.
La sua età e gli acciacchi provocati
dall’umidità lo avevano costretto a camminare curvo su un bastone fatto appunto
con un ramo di arancio.
Quella mattina nella quale apparve
il curioso pesce, il vecchietto che tutti chiamavano “Don Turi”, vide l’insolito
movimento sul quel tratto di spiaggia, di solito poco frequentato, e da dietro
la “supala” , così si chiamano ancora certi siepi divisorie, si mise ad
osservare le scene ed ascoltare, senza essere visto, i commenti. Quando verso
le undici, finirono le visite, volle scendere sulla spiaggia per guardare anche
lui lo strano animale. La sua statura resa ancora più limitata per via degli
acciacchi, gli consentì di guardare più da vicino, rispetto agli altri. Ciò gli
diede modo di accorgersi che l’occhio del pesce non era spento, anzi. La
stranezza lo incuriosì tanto che, forse pensando ad un succulento ed abbondante
arrosto, lo prese e lo portò in casa.
Con riguardo lo posò sul tavolo e,
girandogli le spalle, rovistava nell’unico stipetto che aveva, in cerca di
aromi per il condimento.
Non avendo trovato nulla, e ormai
rassegnato ad usare solo un po’ di sale, si rigirò, ma il pesce era sparito.
In preda un ad una visibile
arrabbiatura, con la sua velocità, si mise a cercare negli angoli della casa e
poi fuori, imprecando contro il gatto, che da unico compagno di solitudine si era trasformato, nella sua mente, in un
ingordo, famelico traditore. Invece di
dividere con lui il lauto pasto, aveva preferito arraffarlo tutto per se e pure
crudo;mascalzone!
La cosa stava diventando seria
perché Don Turi non riusciva a trovare ne il gatto né il pesce né , una
qualsiasi traccia del misfatto.
Dopo mezz’oretta di ricerche, il
povero vecchio sentì il miagolio del suo compagno. Pensò subito che stesse
tornando , gli preparò una bella
lezione, di quelle che non avrebbe facilmente dimenticato.
Invece il miagolio non si
avvicinava, anzi sembrava trasformarsi in un richiamo di aiuto. A questo punto
don Turi ormai più preoccupato per il gatto, che arrabbiato per la scomparsa
del pesce, uscì e seguì il richiamo che proveniva dall’agrumeto.
Quasi al centro del giardino, su un
arancio più alto degli altri, il suo gatto con gli occhi sbarrati ed il pelo
raddrizzato sulla schiena, miagolava e guardava fisso l’albero di fronte. Don
Turi , prese il suo amico, che si acquietò e proseguendo con lo sguardo, vide
l’albero di fronte stranamente pieno di zagara e, in mezzo ai rami seduto, un
bel bambino sui due anni con un pannolino bianco ed uno strano cappellino rosa.
Sulle prime il vecchietto ebbe un
sussulto, poi , quando si accorse che il bimbo gli sorrideva e gli tendeva la
mano, si avvicinò, lo guardò bene davanti e di dietro quindi gli tese anche lui
la mano. Don Turi non seppe resistere a quello sguardo dolce e coinvolgente; lo prese in braccio , fece
scendere il gatto a terra che con la coda dritta per aria lo anticipava fino a
casa.
Ma chi era questo pargolo? Come era
arrivato lì? Come era salito sull’albero? Si chiedeva; Il bambino lo guardava e
gli sorrideva. Camminava spedito per la sua età. Mano nella mano i due si
guardavano spesso negli occhi con il rischio di sbattere in qualche albero.
Appena arrivati a casa, il vecchietto, sistemò il piccolo
sopra una sedia e disse:- ecco qui, non
muoverti, vado a vedere se trovo qualche camicia che non mi sta più e te la
metto addosso; stando così prenderai freddo- .
Come faccio ora, pensava don Turi
mentre rovistava fra i pochi vestiti che possedeva, con un bambino così
piccolo, io che non sono stato sposato, non ho avuto figli e quindi nemmeno
nipoti?
-Non
preoccuparti nonnino- sussurrò un vocino dolce e suadente;
Don Turi si girò di scatto verso la
porta, poi guardò la finestra, quindi uscì sull’uscio, niente non c’era
nessuno.
Il vocino tornò con un risatina- sono io, chi cerchi?-
La
voce era del bambino che nel frattempo
era salito sul letto.
-Tu? Mi hai fatto
prendere un accidenti! Bene allora parli? E dimmi come ti chiami?-
-Dorino, mi chiamano
così- rispose il
bambino;
-Dorino? Che strano
nome. Ma chi ti chiama così? Da dove vieni?- riprese don Turi;
-Vengo
da lontano, molto lontano, da un posto che esiste solo per me e per i
miei. La mia mammina mi chiamava Dorino per via del colore della mia pelle;
guardala bene non è come la tua- e così dicendo con la manina invitò don
Turi a guardarlo da vicino.
Don Turi non vedeva molto bene, quindi
inforcò un paio di occhiali ai quali mancava un’asta e li pose sul naso la cui
punta era particolarmente rossa per via del sole che prendeva.
Ispezionò con attenzione il corpicino
di Dorino e si accorse che dai pori
della pelle, spessissimo spuntavano dei piccolissimi puntini dorati. Era come
se il piccolo trasudasse oro liquido. Il vecchio incuriosito lo toccava con le
sue dita callose ed il bimbo si solleticava e rideva, ma lo lasciava fare,
finché escalmò:
-La mia mamma, mi ha
buttato in mare per salvarmi da un mago cattivo che voleva usarmi come miniera.
Lei è una fata buona e così mi ha trasformato in pesce e mi ha consegnato al
mare con la speranza che, chi mi avesse pescato, avesse l’animo tanto buono da
farmi ritornare bambino-
-Ma
che dici?- disse don
Turi sospendendo l’ispezione e guardandolo con meraviglia e curiosità- Mi prendi in giro? Che favole mi racconti?
Non esistono le fate, i maghi etc etc.-
-Ah
no?- disse Dorino
sorridendo- non ci credi? Guarda qui-
e subito il bambino apparve vestito in maniera elegante e sobria, di tutto
punto fino alle scarpe!
-Mamma
mia, come hai fatto?- chiede il vecchietto indietreggiando quasi
spaventato;
-E’
un potere che mi ha dato la mia mamma quando sono nato, circa 2500 anni fa-
-Senti,
Dorino, io sono un povero vecchio, non raccontarmi frottole, ti prego, potrei
rimarci male, anzi secco!!-
-Ma
non sono frottole; sono rimasto bambino perché ho vagato per mari in cerca di
un animo buono; ora che tu mi hai fatto ritornare bambino, vuol dire che
quell’animo buono l’ho trovato. Da questo momento comincio a crescere.
Conserverò i miei poteri che sono solo per gli uomini che credono nella bontà e
vogliono soltanto il bene dei loro simili e del mondo nel quale vivono. Quindi,
nonnino, puoi chiedermi ciò che vuoi.
-Veramente?proprio
tutto?-chiese il
nonnino:
-certo,
proprio tutto- rispose
Dorino,
-allora…fammi
pensare…voglio, voglio, anzi desidererei che tutta la campagna che vedo
diventi verde, prosperosa, in fiore; che dia tanti frutti in modo che tutti ne
possano mangiare e che quindi anche chi non può comprarla, possa goderne;
desidererei che tutti gli animali trovassero nella campagna, la sicurezza e il
cibo necessario per vivere con
tranquillità, in pace con gli uomini ed in armonia con tutti i bambini-;
E così fù; man mano che don Turi
esprimeva i propri desideri, gli alberi crescevano e si moltiplicavano; i fiori
sbocciavano e riempivano l’aria di profumi e la campagna di colori; gli uccelli
diventarono tantissimi, volavano da albero in albero cantando ; così tutti gli altri animali; le pecorelle,
le caprette; spuntarono i conigli e le lepri che giocavano con i cani e si
rincorrevano con i gatti; le farfalle passavano di fiore in fiore e tracciavano
nell’aria arcobaleni con tantissime sottili strisce colorate; le api
producevano tanto miele che bastava per uomini e per gli altri animali. Tutto
sembrava muoversi agli ordini di un maestro che mandava segnali armoniosi in
maniera che tutto ciò che viveva lo faceva con gli altri e per gli altri. Era
il sogno di una vita e don Turi divenne l’uomo felice nel magnifico giardino
che dorino gli aveva creato.
Ecco di cosa avevo di bisogno per il
Mio monte, avevo bisogno di Dorino, ma come potevo fare. Certo se fossi stato
nella favola di mia nonna mi sarebbe stato facile, ma ahimè ne ero fuori. Peccato avrei potuto salvare
“Mio”. Ma mentre pensavo convinto a queste cose, la tristezza prese in me il sopravvento, perché mi rendevo
conto che nonostante quella favoletta sembrasse vera, non avrei mai avuto la
possibilità di incontrare un Dorino al quale chiedere di salvare il monte, il
Mio monte che soffriva tanto. In quel momento era la cosa che desideravo di
più.
Mentre pensavo e guardavo Mio con gli
occhi quasi pieni di lacrime, davanti alla finestra vidi, seduto su un ramo
dell’albero che c’era nel giardino davanti a casa mia, un bambino che sembrava
lui, si: Dorino. Mi sorrideva e... poi l’albero diventò verdissimo , le
piante intorno misero i fiori , piano piano le case si coprirono di verde ,
comparvero tanti colori , una nuvola di uccelli si diradò sul monte fino a
sparire negli alberi ed il profumo dei
fiori arrivò sino a me. In quel momento mi sono reso conto che ero stato io a
volere Dorino, a volerlo per salvare il Mio monte con tutti i tesori che
nasconde e che produce. Si lo avevo voluto io; avevo voluto una cosa buona e si
era realizzata!
Mi rendevo conto che quando le cose
che si vogliono sono buone o a fin di bene si possono realizzare,
subito...basta volerlo, volerlo veramente e con il cuore.
FINE
PEDALA MICHELE !
(racconto breve)
(racconto breve)
Il
cigolio degli ingranaggi senza grasso accompagnavano Michele in quei budelli
che fungevano da vicoli fra le baracche. Pozzanghere unte si succedevano a
ristagni di acqua lurida e non c’èra il tempo di fermarsi e scrollare dai
pantaloni il sudiciume che si accumulava.
In
quella zona della città le giornate erano tutte uguali con o senza il sole.
Nessuno degli abitanti aveva la voglia di godersi la natura. Di questa grande
madre qui non c’era traccia: niente alberi, nessun fiori, né una fontana, e
nemmeno uccelli.
Messina viveva
una delle sue solite giornate piatte. Ai cittadini non importava nulla,vivendo
questo stato di apatia quasi con coscienza e con la rassegnazione di chi ha
affidato il proprio avvenire ad inetti,
forse da sempre.
Ciò
che la città così detta civile rifiutava, era concentrato in quelle misere
abitazioni: blatte, topi, zanzare , puzze diverse, schifezze varie. Questa era
quella parte della natura della quale godevano quei cittadini di serie C.
Arrivato
sulla soglia dell’abitazione di Maria, con una leggera spinta aprì la porta
fatta da faisite e compensato e pose sul tavolo di plastica la borsa.
“Maria non c’è” ; si sentì flebile la voce della signora Carmela dal
letto. “ E’ andata dal medico per le
solite medicine”. Un violento colpo di tosse le impedì di continuare a
parlare.
Michele
le si avvicinò , la sollevò dalle spalle
e le porse un vecchio sgualcito
fazzoletto che la donna teneva su una sedia di rafia, sulla quale un vistoso buco
consigliava prudentemente di non sedersi.
Michele
era un ragazzino di diciotto anni compiuti da poco, fisico asciutto, bruno,
occhi verdi, figlio di un notaio. La madre lo aveva lasciato orfano a dieci
anni ed il padre , quarantenne, si era subito consolato con un’altra donna della
Messina bene, figlia di un noto imprenditore cittadino.
Maria,
quattordicedicenne, viveva in una delle centinaia di baracche che il terremoto
del 1908 aveva lasciato in eredità ai Messinesi per responsabilità dei politici
e dei governanti che quasi in un secolo avevano elargito solo promesse di
eliminare quelle vergogne. Fiumi di parole e di denaro pubblico sperperati su
quella povera gente ormai giunta, in quelle topaie, alla terza generazione. In
quel tugurio la ragazzina accudiva alla propria madre perennemente ammalata di
bronchite, con le ossa pervase da artriti e artrosi che lentamente la stavano
consumando. La povera signora passava più tempo a letto che in piedi , anche se
la permanenza in quell’ambiente le cagionava maggior danno che una vita all’aria
aperta.
Maria
era magra, la carnagione chiarissima mascherava quel pallore che la vita che
conduceva le procurava. Gli occhi neri,
i capelli nerissimi, sottili e lucidi le facevano risaltare ancora di più i
dolci lineamenti del viso. Nonostante i pochissimi vecchi vestiti riciclati era
sempre pulita e ordinata e così cercava di mantenere quella baracca ereditata dalla
sua bisnonna. Rimasta da qualche mese orfana del padre che faceva il rigattiere, viveva con
la madre, che quando poteva andava a servizio.
Non aveva mai
pagato tasse, tributi vari e nemmeno la corrente elettrica . Conoscendo lo
stato in cui viveva, nessuno dei vicini le aveva mai chiesto di pagare la sua
parte, anche perché, forse, l’allaccio era abusivo come tanti. Ma considerando che
difficilmente avrebbe potuto pagare, il problema lei non se l’era mai posto.
I
due ragazzi si erano conosciuti a scuola dove fortunatamente, le classi sociali
ormai erano , quasi da tutti, considerate una discriminante anacronistica; lei
faceva il primo e lui era di maturità, anche se
con un anno di ritardo perché ripetente. Michele infatuatosi della
ragazzina si era mostrato subito disponibile ad aiutarla a superare le
difficoltà che quotidianamente Maria doveva affrontare. Di nascosto al padre e
alla matrigna, ogni giorno aveva qualcosa per lei o per sua madre e, non di
rado, anche per i vicini di casa, alcuni dei quali cominciavano a chiedere,
quasi a pretendere.
Con
la scusa di andare a studiare dai compagni di scuola o all’oratorio, quasi
tutti i pomeriggi usciva; nel viale S.Martino prendeva il mezzo pubblico fino
alla zona del policlinico, dove, nel retrobottega di un amico, teneva una
vecchia bici con la quale si inoltrava nel dedalo degli angusti spazi che
dividevano le baracche.
Maria,
ovviamente era felice di questa amicizia e ricambiava l’affetto che Michele non
mancava di dimostrarle quotidianamente.
Un
giorno il ragazzo , puntuale nonostante la pioggia, trovò la casa vuota.
Da una vicina
venne a conoscenza che la signora era stata ricoverata d’urgenza al policlinico
per un improvviso aggravamento del suo stato di salute. Tornò indietro e, non
conoscendo i termini e le divisioni per patologie dei padiglioni, faticò non
poco a trovare quello giusto, ma della signora Carmela nessuna traccia. Su suggerimento di un visitatore ritornò al
pronto soccorso. Maria era lì a fianco della madre, che aspettava la visita.
Michele si mise il vestito da uomo e chiese prima ad un infermiere e poi ad un
medico quanto ancora dovesse aspettare quella signora che cominciava a respirare
con fatica. Nessuno gli diede retta, finchè passò un ragazzo con il camice da
medico, che vedendo la donna in affanno, subito si avvicinò. Si rese conto
della gravità della situazione e chiamati gli infermieri, cominciò ad interessarsi
di lei. Si presentò come un tirocinante. Il medico di servizio su
sollecitazione del giovane , dopo una
breve visita e le cure più immediate, ne dispose subito il ricovero,
diagnosticando una broncopolmonite in fase acuta.
“Che significa” chiese subito Michele al tirocinante.
“E’ tua madre”? gli rispose questi
Michele temendo che non gli
dicessero nulla, annuì. “ Significa che è
grave ed ha bisogno di una terapia d’urto immediata ed energica”.
“Ma grave quanto?” chiese Michele preoccupato
“Grave” rispose l’altro. I due seguivano la barella alla quale si
era attaccata Maria che teneva la mano della madre. Arrivati al reparto, il
tirocinante cercò il medico e quindi la caposala per consegnare il referto del
pronto soccorso ed assistere la signora. Il gruppetto aspettava; gli sguardi dei quattro si incrociavano in un
eloquente ma silenzioso desiderio di sapere.
“Come ti chiami” ?
“Michele, lei è Maria e la signora è mamma Carmela”
“mamma di chi ?” chiese il tirocinante
“E lei come si chiama ?” continuò Michele come se volesse prendere
tempo per non rispondere alla domanda
“Io mi chiamo Giuseppe, per gli amici Beppe. Se ti va puoi considerarmi
un tuo amico”
“Certo, perché no?” rispose dimostrandosi lusingato il ragazzo.
“ E pure tu Maria, puoi chiamarmi Beppe” così dicendo le porse la
mano che la ragazza strinse forte, come per cercare tranquillità.
“Ora che siamo amici, potete dirmi come stanno le cose, io credo che tu
e lei non siete fratello e sorella”
“Va bene” sospirò Michele “
la signora è la mamma di Maria, io sono solo un amico” e quindi continuò “ ma se siamo amici come hai detto, ti prego
di considerarmi uno della famiglia altrimenti potrei avere difficoltà a stare
loro vicino; sai, sono sole, non hanno parenti, e diciamo che io mi sento l’unico
uomo della famiglia”
La ragazza annuiva e sorrideva.
“ E’ il piccolo nostro segreto” , fu la risposta di Beppe. La
discussione fu interrotta dalla caposala e poi da un infermiere che, senza
nemmeno salutare, riprese a spingere la barella fino alla corsia.
Il
gruppetto rimase unito ed assistette alla compilazione della scheda con i dati
che parte fornì, con grande fatica la signora, e parte la figlia. Michele e
Beppe guardavano da un’altra parte per
evitare di essere coinvolti in quella specie di interrogatorio.
Il
medico del reparto, intervenuto nel frattempo, dopo aver letto il foglio di
ricovero ed aver sentito il tirocinante, dispose l’immediata esecuzione degli
accertamenti clinici e diagnostici che il caso richiedeva. Comunicò ai ragazzi
che non sarebbe stato possibile assistere direttamente la madre, ma che
potevano stare comunque tranquilli in quanto non le sarebbe mancato nulla. In
ogni caso, il tempo giornaliero stabilito per le visite sarebbe stato loro sufficiente
a rendersi conto della situazione.
Beppe assicurò
i due ragazzi sulla sua costante
presenza ed assistenza.
Ventitre
anni fatti, disse che era al quarto anno di medicina e stava già preparandosi
per discutere la tesi. Sembrava decisamente
bravo come uomo e ben promettente come medico . Questa era la
convinzione che si era fatta la ragazza
nella quale era nata una istintiva simpatia verso quel giovane che pareva
ricambiare gli stessi sentimenti.
Maria
e Michele tornarono a casa di lei.
Quell’apparente
tranquillità infusa da Beppe, si tramutò in meraviglia e quindi in disperazione
per la ragazza quando, entrando in casa la trovò saccheggiata. I pochi arredi
aperti e svuotati. Le misere cose buttate per terra. I pochi vestiti
calpestati.
“Ma cosa è stato?” esclamò Michele
Maria
non disse nulla, si gettò sul letto e si mise a piangere; fra un singhiozzo e
l’altro ripeteva “ sicuramente sarà stato
lui, ancora lui, ma cosa vuole da me, da mia madre, perché non ci lascia in
pace?”
“Lui chi?” rispose Michele
La ragazza continuava a piangere
senza dire nulla. “Ma insomma mi vuoi
rispondere?” riprese lui.
Dopo essersi asciugati gli occhi
con la mano, Maria si sedette sul letto e con un cenno invitò l’amico a
mettersi a fianco a lei, cosa che quest’ultimo fece senza farselo ripetere.
“Mia madre ha un fratello di
dieci anni più giovane e quindi di ventuno anni. Da quando ne aveva sedici è andato a vivere da solo in un’altra
baracca insieme ad un suo coetaneo, rimasto solo a seguito dell’arresto dei
genitori per spaccio di droga, furto, scippo etc. Facevano parte di un gruppo
di immigrati clandestini provenienti nemmeno io so da dove; non sono mai
riuscita a capirlo. Mia madre sa che quella buonanima di mio padre, che tanto
buono non era, facendo il rigattiere aveva accumulato un bel po’ di denaro
sulla cui quantità nessuno ha mai saputo nulla”
“E dov’è questo denaro ora, in quale banca?” l’interruppe Michele.
“Ma quale banca? Lui diceva sempre che i veri ladri erano nelle banche
e che quindi il posto più sicuro era in casa. Mia madre è certa che lo teneva
nascosto qui dentro, ma nonostante gli spazi siano tutti a vista, non siamo mai
riusciti a trovare nulla.”
“ Scusami e quella specie di zio come sa dell’esistenza di questi
soldi?”
“Perché mio padre quando era ubriaco sparlava e per sparlare si è
distratto ed è rimasto schiacciato sotto una massa di ferri vecchi morendo sul colpo. Quel delinquente sa e,
appena, trova l’occasione, viene a rovistare sperando di trovare qualcosa”.
“Ma se sei sicura che questi soldi sono qui dentro, bisogna cercarli
con più attenzione” continuò Michele alzandosi e guardandosi intorno. Tutto
ciò che doveva vedere però era a portata d’occhio, non vi erano altri vani con
esclusione di un piccolo wc con annesso lavandino ed un braccio doccia che
sgocciolava per terra e scaricava direttamente fuori attraverso un tubicino di
plastica.
Il
ragazzo si guardava intorno cercando di immedesimarsi nella mente della
buonanima per capire quale, secondo lui, poteva essere un posto sicuro. Dopo un
po’ disse “ ma stasera che fai resti da
sola? Io non ti lascio dopo quello che è successo”.
“Non preoccuparti non è la prima volta che succede, sono rimasta da
sola anche quando ero più piccola e mia madre faceva la badante”.
“Ma ora sei una donna quasi fatta, e sappiamo bene tutti e due che
l’ambiente che ti circonda non è dei più sicuri”.
“Per te forse, ma per me che sono nata e cresciuta qui non ci sono
pericoli, a meno che…..”
“A meno che?” riprese il ragazzo.
“A meno che non venga gente da fuori zona, e per la verità qualcosa di
spiacevole già è successa”
“Allora adesso facciamo un po’ d’ordine, chiudiamo qui e vieni con me”
“Vengo con te? E dove mi porti?” Continuando con un sorrisino
malizioso “ facciamo la fuitina? Ormai
non è più di moda”.
“Ma che fuitina?Ti porto a casa di un amico mio; qui vicino ha un
negozio con sopra un appartamentino vuoto”.
Fra reciproci
sorrisi e sospiri , in pochi minuti rassettarono ciò che si poteva. Nonostante
non lo dicessero ambedue avevano premura
di trovarsi in un posto sicuro, da soli.
Salirono
quelle scale quasi come due clandestini anche se l’amico li aveva autorizzati.
Michele aveva telefonato ai suoi avvertendoli che per quella notte sarebbe
rimasto a dormire dal suo amico; non essendo la prima volta, la cosa era
passata senza particolari patemi d’animo.
Nonostante
si conoscessero da quattro mesi, non era mai capitato che si trovassero soli in
un camera da letto matrimoniale. Non potevano immaginare che la timidezza
potesse condizionarli a tal punto da farli andare a letto vestiti.
Si
guardavano negli occhi con le teste che scivolando sui cuscini erano sempre più
vicine, fino a quando le loro labbra si sfiorarono, si unirono. Di colpo fu come se fossero esposti al sole di agosto in una spiaggia
isolata con il mormorio del mare e il
canto dei gabbiani che sembrava dolce come quello delle capinere. Si tolsero i
vestiti lentamente , un capo alla volta ma sempre con meno timidezza. La pelle
bianca di Maria, i seni piccoli ma turgidi con i capezzoli rosei e irti si
contrapponevano al dorso di Michele nel quale i pettorali e gli addominali
percorsi da un rivolo di morbidi peli , mostravano un uomo quasi maturo.
Il
mattino li colse raggianti. Il sole era già alto e nemmeno il casino del
traffico delle ore di punta era riuscito a svegliarli prima. Erano le undici e
dovevano andare al policlinico a trovare mamma.
A
mezzogiorno si trovarono nel reparto. Carmela li mise al corrente sugli
accertamenti eseguiti fino a quel momento e dei quali comunque non aveva ancora
alcuna notizia.
Rimasero
lì fino alle quattordici. Due ore sufficienti a mettere al corrente la signora
su ciò che era successo a casa e a studiare eventuale rimedi.
Non
volendo denunciare il proprio fratello, anche se delinquente, Carmela non seppe
dare alcuna indicazione sull’eventuale nascondiglio ma anche lei era certa che
questi soldi da qualche parte dovevano essere “ tuo padre, pace all’anima sua, non mi ha mai reso partecipe delle sue
attività né tanto meno mi ha mai informato sui suoi guadagni. Mi dava tanto
quanto bastava per sopravvivere. Era un tirchio e molti soldi li investiva al
gioco e a puttane senza contare le sbornie che lo accompagnavano quasi ogni
sera”. Diceva queste cose con tristezza ma anche con una stizza di rabbia.
“Io ho un’idea” disse Michele “ mentre lei è in ospedale, noi smonteremo
la casa e faremo una ricerca accuratissima, palmo per palmo. Tanto per ora
abbiamo dove dormire e per mangiare ci arrangeremo per un paio di giorni”.
Non
potendo fare altro, Carmela acconsentì, raccomandando ai due ragazzi di stare
attenti sotto tutti gli aspetti.
Quel pomeriggio stesso cominciò
il controllo minuzioso della baracca. Furono accatastati i pochi mobili,
smontata la cucina, battuto il pavimento palmo a palmo per cercare eventuali
vuoti. Nulla, non fu trovato niente. Stanchi, sporchi e sfiduciati decisero di sospendere
e riprovare il giorno dopo.
Michele prima
di uscire si volle fare una doccia. Mentre l’acqua scivolava sulla testa che teneva curva in
avanti, notò che non tutta veniva
smaltita attraverso quello scarico che dava direttamente fuori; si abbassò e si accorse che dalle
fughe delle mattonelle salivano minuscole bollicine che si notavano solo in
assenza di sapone. Grattò con il dito in mezzo a quegli spazi e vide che sotto
una leggerissima patina di cemento vi era una rete a maglie sottilissime che
sembrava di acciaio.
Subito chiuse l’acqua, chiamò Maria
, si fece portare un giravite ed un martello e scoprì che sotto le mattonelle
vi era una struttura in alveolato formata da mattoni forati protetti da una guaina in carta catramata. Ruppe tutto e trovò che
all’interno di ogni foro dei mattoni vi erano arrotolate banconote da 50,
100 e 200 euro. Ridendo, quasi
nevroticamente, estrassero tutti i mattoni avendo cura di non rompere le
piastrelle del pavimento; otto mattoni avevano i vuoti riempiti da banconote
arrotolate di vario taglio , tre erano ancora vuoti. Si assicurarono che la
porta e le due finestre fossero chiuse e quindi si misero a sistemare per terra
le banconote dividendole per tipo. Alla fine contarono 185.000 euro. Non era
una grande cifra ma più che sufficiente per soddisfare alcune esigenze primarie
della piccola famiglia. Non potendo aprire un conto in banca perché la signora
Carmela era ancora impossibilitata a farlo, sistemarono i soldi in una borsa di
Carmela e non senza timore si trasferirono nell’appartamento dell’amico.
“Bisogna dirlo a tua madre” disse
Michele
“Ma i soldi li lasciamo qui? E se le chiavi
ce li ha qualcun altro?”
“Non preoccuparti, da tua madre andremo uno
alla volta. Per stasera ormai ce ne staremo dentro. Domani tu andrai
all’ospedale ed io resterò di guardia qui”
Maria lo
guardò seria “ Ma che hai non ti fidi?”
la richiamò Michele.
“Certo che mi fido, perché non dovrei? Stava
pensando a quello stronzo di mio zio. Aveva ragione e sapeva”.
La notte passò
insonne. Lei faceva programmi che riguardavano sia lo loro vita insieme sia
l’utilizzo di quei soldi. Verso l’alba il sonno ebbe ragione e i due si
svegliarono in tarda mattinata.
A mezzogiorno Maria andò a trovare
la madre. Lì trovò Beppe che stava cercando di spiegare a Carmela i risultati
delle analisi e degli accertamenti avendo cura di non allarmarla
eccessivamente.
Quando ebbe
l’occasione chiamò la ragazza nel
corridoio e la mise al corrente sul gravissimo stato nel quale si trovava la
donna. Il giovane medico fu molto chiaro e non nascose la possibilità di altre conseguenze
se non le fossero assicurate con costanza tutte quelle cure che il caso
richiedeva soprattutto una volta dimessa dall’ospedale, nel quale, comunque
sarebbe dovuta rimanere ancora alcuni giorni.
Poi, visto che
era sola, si offrì di accompagnarla a casa. Maria non voleva, si vergognava a
portarlo nella baracca: “ Guarda che so
dove abiti, tua madre mi ha detto tutto. Non preoccuparti anch’io vengo da una
situazione di degrado simile alla vostra, e pure sono qui. Con grande fatica e
grandi sacrifici dei miei genitori, sto cercando di inserirmi nella società che
conta . Ci sono quasi riuscito. Certo è difficile partecipare alle feste, alle
gite, ai divertimenti che i miei colleghi organizzano spesso; non sono nelle
condizioni economiche di reggere i loro ritmi. Ogni volta debbo inventare una
scusa per non andarci e ciò rischia di isolarmi da quel mondo che, in questa
bella ma triste città, comanda. Nelle scuole materne ed elementari i
genitori applicano una sorta di
selezione, inculcando nei bambini la convinzione di essere diversi e superiori
ai coetanei che vivono nelle zone emarginate. Indottrinamento che
poi, da adolescente e fino alla laurea, fortunatamente , scompare, anzi i
giovanissimi fraternizzano, solidarizzano, superano tutte quelle barriere sociali
che gli adulti hanno eretto. Poi man mano che
si cresce, queste barriere cominciano ad essere ricostruite e il triste
fenomeno si perpetua negli anni”
Maria ascoltò
con attenzione e il pensiero andò a Michele, a quella loro storia che stava
seguendo esattamente quel copione ormai consunto ma sempre attuale in quella
porzione del mondo messinese che viveva fra l’ipocrisia della media e alta borghesia
e la demagogia della classe politica.
I due si
avviarono verso casa e si addentrarono fra le baracche. Beppe , forse per non
mettere in difficoltà la ragazza, ostentava disinvoltura come se di quelle zone
fosse stato un frequentatore e lei ogni tanto lo guardava per scrutarne le
reazioni.
Arrivati alla
baracca, Maria si accorse che la porta era stata forzata, senza riflettere la
spinse ed entrò. Subito si sentì addosso due braccia che la strinsero. Beppe,
che le era dietro, istintivamente si gettò sull’energumeno ma fu colpito alle
spalle da un corpo contundente e cadde per terra svenuto. “Lo hai ucciso, farabutto, assassino” gridò la ragazza. Sulla porta
apparve un uomo di circa cinquant’anni, alto , barbuto, che avendo sentito
gridare si era avvicinato “Presto don
Lillo , presto” gridò Maria. Alla vista di quell’uomo i due lasciarono la
ragazza e guadagnarono la porta: “Li hai
trovati, lo so che li hai trovati, puttanella. Ritorneremo”.
“Ma chi erano? che volevano?” disse con
un vocione rauco classico dei fumatori incalliti Lillo.
“Era quello stronzo di mio zio e un suo
degno compare” disse la ragazza piangendo e toccandosi le parti doloranti. “Presto un po’ d’acqua per Beppe”, così
dicendo cominciò a bagnare la testa del ragazzo che era disteso per terra, lo
bagnava e lo accarezzava con lo sguardo sempre più tenero.
Lillo
guardando quella scena, visto che il giovane cominciava a prendere conoscenza,
preferì allontanarsi “ se non hai più
bisogno di me, me ne vado, ho lasciato la pentola sul fuoco”. “Grazie disse
lei” chiuse la porta e si precipitò su Beppe che stava riprendendo
coscienza. Quasi istintivamente gli poggiò per l’ennesima volta la mano sulla
guancia e quindi le labbra sulle sue; il ragazzo la cinse dolcemente. Dopo
qualche minuto lei si staccò “Grazie per
ciò che hai fatto, questo era un modo per sdebitarmi”.
Toccandosi la
testa sulla quale era spuntato il bel bernoccolo che lasciava uscire anche un
po’ di sangue, con fatica chiese: “ma chi erano? Cosa avresti trovato?”
“E’ una sua fissazione. Quello è il fratello
minore di mia madre; è mezzo sbandato, vive con un suo pari ed è convinto che
qui ci sia un tesoro”.
“Un tesoro”?
“si, dei soldi insomma, non ho ancora capito
chi li
avrebbe dovuto nascondere……. Ma tanto è matto”!
Il ragazzo si
sedette sul letto, Maria accanto cercava di consolarlo, ma anche lei era
dolorante. Beppe vistole alcuni lividi sulle braccia “ distenditi, fatti controllare, sono un medico, anche se non sto molto
bene, ancora sono in grado di capire”
La ragazza si
spogliò lentamente e si distese sul letto in slip e reggiseno. Un sorriso
malizioso si fissò sul quel volto e gli occhi luminosi erano un chiaro invito.
Il giovane cominciò a sudare, quel corpo tenero, bianco e perfetto era una
tentazione troppo forte. Le toccò le braccia e i polpacci là dove più visibili
erano le tumefazioni, quindi si asciugò la fronte con le mani e disse: “ niente, non c’è nulla…….fortunatamente è
tutto a posto… vestiti”.
“Ma come tutta qui la visita?”
“Senti Maria, ho un fortissimo mal di testa,
non farmela scoppiare completamente. Vestiti, fai quello per il quale sei
venuta qui e andiamocene, voglio medicarmi per bene questa ferita”.
La ragazza un
po’ delusa, ma ugualmente contenta, fece ciò che Beppe le aveva chiesto. Quindi
andarono nella farmacia più vicina, comprarono quanto necessario per la medicazione
e si diressero verso casa , passando prima in una bancarella di extracomunitari per
comprare un cappello sportivo.
Lungo la
strada il giovane ritornava con la mente a quanto era successo e cercava di
valutare il suo stesso comportamento. Aveva fatto la figura del fesso o
dell’uomo che cosciente delle minore età della ragazza era stato saggio?! Certo
non aveva sottovalutato il fatto che Maria, vivendo in quell’ambiente, avrebbe
potuto essere già emancipata ma era pur sempre minorenne e non conoscendola
ancora bene , la prudenza era la prima cosa da usare.
“Sei venuto altre volte qui?”chiese la
ragazza
“No, perché?” rispose Beppe
“Da come procedi, mi dai l’impressione che
sai già dove andare”
I due
arrivarono speditamente a casa dove Michele sembrava li stesse aspettando.
“Ma cosa è successo”? chiese allarmato
il ragazzo appena li vide.
“Nulla di grave” intervenne subito lei ” quello stronzo di mio zio che ancora
insegue quella sua idea matta del tesoro” e così dicendo strizzò l’occhio a
Michele.
Rapidamente
informarono il giovane sull’accaduto, quindi passarono alla medicazione della
ferita fatta dolcemente da Maria sotto le direttive del medico. Quindi Beppe,
con in testa quel cappello, lasciò i due giovani.
“Quello ritornerà” disse Michele,” bisogna fare qualcosa; ha capito che
abbiamo trovato i soldi. Per fortuna non sa quanti sono , ma ci inseguirà e ci
renderà la vita difficile”.
“Ma non possiamo denunciarlo”? chiese la
ragazza
“Si che possiamo, ma dopo due giorni sarà di
nuovo fuori e sarà peggio di prima.
Bisogna trovare un’altra soluzione, una soluzione che ci dia tranquillità per
sempre. Ora mangiamo qualche cosa, ci penserò”.
Il giorno dopo
Maria che si sentiva già donna con le responsabilità di una famiglia sulle
spalle, con un bel pò di soldi nei jeans andò al supermercato a fare spesa. Da
quattro giorni ormai non andavano a scuola e i genitori di Michele continuavano
a chiamarlo al telefonino. La risposta era sempre quella, “ non preoccupatevi, recupererò”.
Beppe era
all’università come quasi ogni mattina. Rispose al telefonino: “ ah sei tu? Certo, sta andando tutto
bene…….no, non ce l’ho fatta. Non dirmi che tu, invece…. e che si geloso! Fino
ad oggi abbiamo fatto tutto insieme, ora però bisogna chiudere, la cosa sta
andando troppo per le lunghe. Lei dov’è adesso? Ma sa chi sei? Ah bene. Certo,
certo che siamo stati bravi ma anche fortunati. Va bene ora procedi, fai ciò
che avevamo concordato”.
Dopo un paio
d’ore la ragazza ritornò a casa, ma non riuscì ad aprire più il portoncino. Un
rapido sguardo al cilindretto della serratura le consentì di capire che era
stato cambiato. Bussò con insistenza, chiamò Michele. Niente nessuna risposta.
Chiamò al telefonino: irraggiungibile.
Aspettò tutta
la mattinata, finché decise di portare le borse nella sua baracca ed aspettare
lì. Sicuramente Michele l’avrebbe cercata. Verso le tredici andò a trovare
mamma che stava migliorando. Quella mattina, stranamente , non si era visto
nemmeno Beppe. “Può darsi che abbia avuto
da fare, un medico, anche se giovane, è sempre impegnato” disse Carmela.
In un bar
vicino Beppe e Michele stavano mangiando una focaccia, sul tavolo due birre e
due bicchieri. “ Ora che facciamo? Non
possiamo mettere i soldi in banca.” disse Michele.
“Ma che banca.. mettà ciascuno e via. Ti
ricordi eravamo seduti qui, quando venne Maria e sua madre a cercare il
rigattiere. Lui era qui a fianco e,
ubriaco, disse che se non l’avessero smesso di trattarlo come un demente non
avrebbe rivelato il nascondiglio dove teneva nascosti i soldi”.
“Ma sei sicuro che Maria non sa nulla di
te”?
“Certo che sa tutto. Tutto ciò che io le ho
detto. Le notizie necessarie per non trovarmi” rispose Michele
“ma non ha foto, telefono”?
“foto no, il telefono? L’ho cambiato,
figurati con tutti quei soldi. Il vecchio l’ho schiacciato.”
“E se Maria ti denunciasse” chiese Beppe
“Mi pare difficile che una ragazzina delle
baracche possa far credere alla polizia che uno come me, ammesso che mi
rintraccino, possa essere implicato in una favola di tesori nascosti. E’più
semplice credere ad un ricatto da parte sua, non credi?” sentenziò
tranquillamente Michele.” Anche tu però
sei stato bravo, quei due anni di iscrizione in medicina ti sono serviti. Certo
che se avessi continuato, magari oggi saresti un bravo medico. Ma dimmi come
mai riesci a girare tranquillamente con il camice fra i reparti?
“ Ho ancora il tesserino di studente e poi
con la confusione che c’è , andando raramente nessuno mi chiede chi sono e
comunque non avrebbero il tempo di verificare”.
“E tutto un bordello” concluse Michele.
“Intanto, per poco non mi ammazzava quel
coglione dello zio di Maria”
“In tutto c’è qualche imprevisto” .
Maria era
ritornata a casa. Scese la sera. Sembrava più buia del solito, la baracca più
triste, più sporca, più spoglia; di Michele nessuna notizia.
Bussò alla
porta il sig Lillo che, senza attendere molto, aprì e d entrò.
“Ah è lei don Lillo entri pure “disse la ragazza.
“Ero venuto per chiederti notizie sulla
salute di quel giovanotto che ha preso il colpo in testa.”
“Credo stia bene; però è da stamattina che
non lo vedo”
“E’ da parecchio che lo conoscevi?”
“No, si è presentato qualche giorno fa in ospedale,
quando ho ricoverato mia madre”
“Ma come”? disse sorpreso Lillo “Se io l’ho visto gironzolare qui almeno un
paio di volte in questo ultimo mese”
Maria si fermò
a pensare. In effetti c’era qualcosa che non andava, troppe coincidenze, troppe
confidenze improvvise, troppo affetto. Eppure sembravano due ragazzi educati, a
modo, prudenti. Si, questa era stata la loro arma vincente. I modi educati a
cui lei non era abituata. Quegli atteggiamenti dolci e desueti in
quell’ambiente l’avevano ingannata.
Si sedette sul
letto, riprovò per l’ennesima volta a
fare il numero di telefono di Michele:”il numero è inesistente”. Due grosse
lacrime bagnarono quella minuscola tastiera.
Fra un
singhiozzo e l’altro raccontò a Lillo cosa era successo.
“Tu e tua madre non potete rimanere sole
come me” azzardò timidamente l’uomo”
avete bisogno di qualcuno… di un uomo che vi protegga”.
Maria alzò gli
occhi pieni di lacrime , lo guardò un attimo e poi aggiunse con un timido
sorriso “ Ha provato mai a tagliarsi la
barba ed a vestirsi più decentemente?”
Lillo divenne
rosso dalla vergogna e sparì. Maria continuò a pensare e a cercare una
soluzione per recuperare quei soldi che
suo padre bene o male aveva sudato, senza venire a capo di nulla. Era certa che
una denunzia si sarebbe rivelata inutile e non sapeva come dare la notizia a
sua madre.
Dopo circa
un’ora, bussarono alla porta, andò ad aprire e sulla soglia vide un uomo pulito
di bella presenza, alto, ben vestito . Dopo un attimo riconobbe Lillo “ ma porca miseria, si accomodi sembra un
altro” disse meravigliata “ si giri,
si faccia vedere”.
Lillo contento,
non si tirò indietro e fece passerella, forse aveva abusato con il profumo, ma
andava bene lo stesso. “Domani andiamo a
trovare mia madre, vedrà sarà felice di vederla”.
Dopo una
settimana Carmela, ormai fuori pericolo, lasciò l’ospedale e andò a vivere con
Lillo per la felicità di Maria che si sentiva più protetta, mentre una televisione
locale dava la notizia dell’arresto di una banda di giovani , figli dell’alta
borghesia, dedita alle truffe. Fra le foto riconobbero Beppe e Michele. Tramite
un buon avvocato riuscirono a recuperare ciò che rimaneva dei soldi, ancora un
gruzzoletto sostanzioso che unito ai risparmi di Lillo consentì loro di
acquistare un appartamentino in condominio. Finalmente una famiglia, una casa.
Dietro le
tendine pulite di una finestra in legno con le persiane , Maria guardava lo
stretto; quel mare che dalla baracca non avrebbe mai potuto vedere; il via vai
dei traghetti che da cinquant’anni erano sempre gli stessi anche se con qualche mano di vernice
in più e poi la Madonnina che domina
l’ingresso del porto e, perplessa, leggeva “Vos et ipsam civiatem benedicimus”.
Ricordava Michele che andava a trovarla nella baracca in bici. Era un bel
ragazzo della Messina bene e, per andare da lei, pedalava tutti i giorni.
FINE
LA TELEFONATA
(racconto brevissimo)
(racconto brevissimo)
«Pronto... Sei tu cara? Come stai? Che piacere sentirti».
Breve pausa, durante
la quale la nostra amica annuisce e sorride.
«Sì sì, …no, non preoccuparti, tu non disturbi mai».
Sempre con il telefono
stretto all’orecchio si alza e si muove per il locale nel quale si trova
«Sì? Non mi dire… quindi sei andata dallo specialista per quel controllo
all’orecchio e che ti ha detto?»
Breve pausa.
«Allora adesso devi fare questa cura per quindici giorni? »
«Meno male che è una semplice otite, pensa se fosse stato come quella di
tua sorella. Mi ricordo, sai, tutto quel liquido schifoso che le usciva
dall’orecchio… due mesi di cura e pure forte…quante punture poveretta».
Altra pausa.
«Sì? Vero? Come mi di spiace. Certo deve essere un bel fastidio
poveretto, lui che è abituato a lavorare come un mulo, certo …certo… ma cosa ha
mangiato? Sai perché la maggiore causa delle emorroidi è l’alimentazione e per
la verità tuo marito non è che si sa trattenere. Detto in confidenza quando
si siede a tavola, come dici spesso tu, è un porco. E poi sapendo che soffre
pure di coliciste, che ha il fegato ingrossato ed un pò diabetico, farebbe
bene a trattenersi. Ah, senti, poi con la cura per quel disturbo ai polmoni
cosa ha fatto? – pausa– Nulla? Quindi
la notte non ti fa dormire per la tosse e… – aggiungendo una risatina
maliziosa – …niente sesso! Sapessi quanto
mi dispiace!»
Si risiede e accavalla
le gambe.
«Certo, certo, hai ragione poverina. Sì, può essere un fattore
genetico se anche tuo cognato ha gli stessi problemi… anche tuo suocero…?
Allora è chiaro. Ah, tuo cognato in più ha un forte esaurimento? Allora è una
cosa seria, ma il motivo?»
Breve pausa.
«No! Non ci credo; e come è successo? – il volto si fa serio e
lascia trasparire un smorfia di meraviglia –
Ma perché prima di versargli i soldi non si accertava… certo… ovvio. Ed ora non
può più far fronte alle cambiali. Venticinquemila euro?! Caspita, sono una
bella sommetta. No, no, io non posso, non ce li ho materialmente… altrimenti lo
sai…»
Brevissima pausa.
«Come sto io? Guarda, adesso non posso parlare, sono nella sala di
attesa del medico ed è pieno di gente, non è il caso che le mie cose personali
le sentano gli altri. Va bene, ti saluto… è stato un piacere. Ciao Maria e
auguri anche per tuo marito Franco e tuo cognato Gioacchino. Ciao».
FINE
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