Biografia Racconti Poesie Aforismi e frasi

domenica 28 aprile 2013

LE MIE PUBBLICAZIONI

STORIA, ARCHEOLOGIA, MITOLOGIA DEL TERRITORIO DI PATTI
con la descrizione di alcune importanti scoperte archeologiche





ROMANZO. Un'avvincente storia di una ragazza che, pure fra le molteplici avventure, riesce a salvare e a proteggere i sentimenti più belli di una donna e di una madre.



ROMANZO. Un giallo che racconta con incalzanti colpi di scena, le avventure di un giovane professionista che la lascia la natia terrà in cerca di lavoro al Nord.



ROMANZO. Problemi di fede, sesso, mafia e affari in un contesto che vede coinvolta la Chiesa con i suoi eterni dilemmi.





ROMANZO STORICO. Le vicende che hanno portato all'annessione  della Sicilia al Regno di Piemonte che la storiografia ufficiale non ci racconterà mai, calate in un avvincente romanzo con storia di amori e di rapimenti. Contiene inoltre la ricostruzione della biografia di famosi personaggi che hanno avuto parte attiva nel cosiddetto Risorgimento.






FAVOLA fantastica ed ecologica.






ROMANZO. E' un giallo che mette in evidenza le difficoltà della società a contrastare il fenomeno dell'usura ma è anche un divertente romanzo che vede impegnato un simpatico suocero, che si improvvisa detective, nella difesa dell'onore delle sue figlie e del proprio patrimonio.





RACCOLTA DI POESIE  : STIZZI (piccole gocce)

Gocce d'anima

La poetica di questa raffinata raccolta è puro sentimento cristallizzato in parole
che sono come ideogrammi e racchiudono in sé significati e sfumature di una
complessità impossibile a definirsi ma che si può solo assaporare come una delle
suntuose preparazioni culinarie della tradizione siciliana. Siciliana come Nino
Lo Iacono, vero intellettuale di quel crogiolo di civiltà, razze, tradizioni che è la Sicilia. 
È la Sicilia immortale l’humus della parola di Nino Lo Iacono, sia essa nell’aspra e dolce lingua del popolo, che nella corretta dizione ufficiale, addolcita da sfumature subdole di sicilianità che sono come un tenue e seducente profumo su una bellissima donna. 
Ma cosa fa vibrare le corde del cuore di questo poeta? Spesso si parte dal dolore come in “T’incuntravo nta’nu surcu” o nella agghiacciante “Fango assassino”, altre volte da una radiosa sensualità come in “Ti vogghiu baciari” o in “Diventare donna” ma, sia che si tratti di impegno sociale o di amore sensuale, la
sensazione è sempre quella di un percorso ideale, di un tragitto “Ex Tenebris
Lux” che è liberatorio e catartico. 
E del resto altrimenti non potrebbe essere, l’animo siciliano, abituato a disastri
naturali, scolpito dallo scirocco, funestato da invasioni e scorrerie non perde
mai la sua solarità, il suo senso mistico di intensa religiosità. 
Questo è la poesia di Nino Lo Iacono, magia, bianca e simpatica che trasuda da queste pagine rese vive dallo spirito e da cui è bello lasciarsi impregnare. 

                                                                                              Andrea Marrone






giovedì 25 aprile 2013

BIOGRAFIA

Nino Lo Iacono 
Nasce il 13 Agosto 1949 a Patti ( Me) in cui  vive ed opera.
Studioso della sua terra, ha già pubblicato Nauloco e Diana Facellina - Un’ipotesi sul territorio di Patti fra mitologia, storia e archeologia presentato, fra l’altro nel 1998 all’Università di Marshall e in altre località del Minnesota (USA). Gli studi pubblicati hanno dato un fondamentale contributo alla ricostruzione storica di tutto il territorio pattese ed è stato determinante per la soluzione del mistero sulla localizzazione del Nauloco.
            Dal 2006 si occupa di narrativa con la pubblicazione dei romanzi: Nina, con il quale ha vinto il premio nazionale di narrativa “Città di Oliveri”, il giallo Quel giorno qualunque, “Il Prete, selezionato dal premio nazionale di narrativa “ l’albero andronico” di Roma”.
            L’opera La repubblica delle due Sicilie è un’interessante commistione fra romanzo e storia, a cui le vite dei personaggi  s’intrecciano irrimediabilmente. In questo lavoro emergono quelle vicende che hanno portato all’annessione della Sicilia al resto dell’Italia e che la storiografia ufficiale ha omesso.
             Con la favola Dorino, intraprende un nuovo filone letterario che riscontra grande successo fra i più piccoli. Lo Iacono devolve  gli utili provenienti dalla vendita della favola all’A.G.S.A.S. ( Associazione Genitori Soggetti Autistici Siciliani).
            L’ultimo romanzo Papillon e cravattari propone  il drammatico fenomeno dell’estorsione e dell’usura attraverso una nuova luce: l’ironia, l’astuzia, la rapidità d’azione, la chiarezza del linguaggio e le divertenti vicende nelle quali vengono coinvolti  i personaggi ,  fanno di Papillon un triller dai contorni  esilaranti e accattivanti .
            Recentemente Lo Iacono si è dedicato alla stesura di  racconti brevi ed alla poesia. Alcune di queste opere sono state già pubblicate nell’antologia Cercatore di sogni edita dalla casa editrice Kimerik.
            Il presente volume rappresenta la prima raccolta di poesie in lingua italiana e in vernacolo. Il titolo Stizzi (gocce) racchiude il senso e il tema delle liriche, gocce d’amore nelle sue svariate sfaccettature.  Nelle sue liriche, Lo Iacono riesce a trasmettere e le emozioni trascinanti di chi crede ancora nella forza propulsoria dei sentimenti e degli ideali. Emozioni che diventano travolgenti passioni nelle poesie in dialetto che possono fare annoverare il Lo Iacono fra i più incisivi poeti popolari contemporanei.
                        I suoi romanzi, tutti ambientati volutamente in Sicilia, raccontano  storie, intrighi e passioni della gente di questa terra, di vita vissuta come in nessun’altra parte del pianeta. I suoi racconti sono talmente verosimili da sembrare storie vere. Le trame intriganti e coinvolgenti, le rime ed i versi incalzanti, invitano a completare la lettura tutta d’un fiato. Il linguaggio semplice e scorrevole rendono gli scritti di Lo Iacono, piacevoli compagni di momenti di evasione e di riflessione.
           

AFORISMI E FRASI

STILETTI E FIORETTI

  • Le scelte ardite sono spesso suggerite più dall'incoscienza che dal coraggio. 
  • Quando in politica si fa abituale uso dell'illegalità, la sua pratica diventa un crescendo come se tutto fosse lecito o che l'artefice degli atti delittuosi fosse intoccabile. Se a perpetrare gli atti illegali è un leader, i suoi seguaci, quelli stupidi, ignoranti e arroganti lo seguono, finendo prima o dopo, insieme con lui, nella rovina.
  • Un giovane troppo maturo rischia di privarsi della sua giovinezza; un maturo giovane sicuramente guadagna in brillantezza.
  • Se vuoi che una notizia circoli, raccontala, raccomandando di non diffonderla perchè trattasi di un segreto molto delicato; più delicata e succulenta è la notizia , più velocemente circolerà.
  • I calli alle ginocchia sono patologie che il mio corpo non conosce e mai conoscerà.
  • Guardare negli occhi il proprio interlocutore serve a capire se ciò che esce dalla sua bocca è solo rumore.
  • Il semplice fatto di essere buono con il prossimo non impedisce al prossimo di essere cattivo con te.
  • Nessun politico si è mai suicidato per non aver adempiuto onorevolmente  al mandato elettorale ricevuto.
  • Per evitare la follia , spesso, è meglio non conoscere la verità.
  • E’ onorevole  per un uomo probo e onesto essere denigrato da un avversario disonesto.
  • L’orgoglio non sempre è un buon consigliere.
  • Scrivo le mie poesie così come me le trasmette il cuore: senza regole. I sentimenti non ne hanno e non sbagliano mai . 
  • Io ho frequentato  sempre donne intelligenti quindi, di queste, ho sempre avuto un'ottima idea...le altre non le considero.
  • In politica è importate fare in modo che gli imbroglioni e i millantatori rimangano divisi altrimenti la collettività potrebbe averne nefaste conseguenze
  • Voglio godermi il resto della vita fra le follie generate dalla mia saggezza.
  • Ci sono giorni nei quali la stanchezza pare insuperabile e giorni nei quali la gioia è incontenibile, ricordati solo di questi ultimi , ti farà scordare i primi.
  • L’orgoglio non sempre è un buon consigliere.
  • Se vuoi evitare l’invidia devi essere senza meriti. Ma un uomo senza meriti è come un'inutile bolla di sapone, nessuno lo prende in seria considerazione.
  • L'entusiasmo è un ottimo motore per la macchina della tua vita ma occorre che a guidare tale macchina sia l'intelligenza.
  • Se non si accettano le regole del vivere insieme è come essere prigionieri della propria libertà...schiavi di se stessi.
  • Dai sempre agli altri quei suggerimenti che speri ti ritornino utili.
  • Il silenzio di un sorriso sincero e radioso è molto più eloquente di mille complimenti.
  • La storia dell'uomo e le sue vicende ci insegnano che l'esperienza serve solo a non ripetere gli errori stupidi.
  • Quando alla finzione si dà più credito della realtà, allora avremo mandato all’ammasso i nostri cervelli.

RACCONTI BREVI


LA SCALA DI DON TANO
(racconto breve)
Nelle rigogliose campagne pattesi esistono tantissimi casolari abbandonati  che un tempo furono luogo di grande produttività e di aggregazione familiare.  Qualche vetusto fabbricato è  ancora abitato da testardi anziani che continuano a coltivare il loro piccolo orto per  amore verso quella terra che tanto generosamente li aveva svezzati, cresciuti e formati.
Su una delle colline che sporgono come terrazze sul golfo di Patti e sulle isole Eolie, abitava don Tanu, arzillo ottantunenne, per gli altri anziani Tanu u camperi, per i più giovani semplicemente u ‘zu Tanu. Aveva un carattere taciturno ma forte; da campiere agiva sui fondi a lui affidati come un dittatore, ma quando era a tavola con gli amici, don Tanu era un uomo di compagnia, allegro. Si faceva volere bene, diventava affettuoso  quando trattava con i bambini; per loro avrebbe fatto la qualunque ed a loro dava tutto ciò che poteva concedere. Ecco perché, nonostante tutto, riusciva ancora a mantenere buoni rapporti con tutti coloro che a lui si accostavano.
Il casolare aveva tre portoni al piano terra: da uno si accedeva a un vano nel quale, una vecchia cucina a legna, un vecchio ma massiccio tavolo quadrato e quattro sedie, costituivano l’arredamento, completato da due credenze. Su di esse stavano in  bella mostra  due pentole, una di creta che aveva almeno 50 anni e veniva dalle fornaci di Marina di Patti, una di alluminio con qualche ammaccatura e col fondo affumicato, inoltre una padella con il manico rotto, due mestoli di legno e quattro piatti bianchi con decori blu. Una scala di legno conduceva al piano superiore, dove in un unico vano, troneggiava un vecchio letto con baldacchino, ma senza veli, due comodini, due sedie e un vecchio massiccio armadio a due ante, l’armuarru, come diceva don Tanu.
Dal secondo portone si accedeva al vecchio palmento, ancora tutto montato e funzionante, anche se  la polvere e qualche filo d’erba tradivano gli anni del suo pensionamento.
La terza porta dava accesso a un locale, una volta adibito a stalla, oggi vuoto e stranamente ordinato e pulito; una vecchia scala a pioli conduceva a un soppalco a cui aveva accesso soltanto don Tano. A nessuno dei suoi ospiti, negli ultimi quarant’anni, era stato concesso di salire per quella scala per espresso divieto dello stesso padrone di casa. Questo divieto, spesso manifestato con toni anche duri, aveva fatto insorgere un’enorme curiosità. Spesso quando qualcuno, scherzando e sfottendo, insisteva per salire  nel “pagghiaru segretu”, così ormai veniva definito il soppalco, don Tano si tramutava in viso dalla rabbia; gli occhi  si infuocavano, le guance diventavano viola, le bianche sopracciglia sembrava aumentassero di volume e la scolorita coppola sulla testa veniva girata nervosamente da destra  a sinistra.
Si racconta che più di una volta, ragazzi curiosi avevano tentano di abbordare quel luogo ma l’attento vegliardo li aveva messi in fuga minacciandoli anche con il fucile da caccia che ,per abitudine, portava sempre dietro… scarico. Per non correre rischi, negli ultimi anni aveva rimosso la scala e la portava in cucina in modo che nessuno, neanche di notte, potesse tentare un blitz.
La diffusa cultura, il rispetto per le leggi e le Istituzioni cui sono stati da sempre abituati i Pattesi, erano e sono i motivi per cui in questo territorio la mala genìa non è mai allignata e questo ha impedito il sorgere del fenomeno della delinquenza. Niente quindi ladri e ladruncoli dai quali don Tano avrebbe dovuto difendersi ma solo curiosi e pettegoli, categorie che lui considerava più pericolose dei ladri.
Quella scala era mantenuta come un reliquario, sempre verniciata e lucida, controllata e revisionata ogni settimana ma solo quando era sicuro che nessuno lo avrebbe interrotto con una visita, spesso poco gradita.
Una volta la settimana, una settantenne signora, da tempo innamorata di lui, ma mai oggetto delle sue attenzioni, lo andava a trovare e con la scusa di aiutarlo,  dava una pulitina all’alloggio. La musica era sempre la stessa  “Tanu se m’avissi maritatu 40, 30 anni fa oggi stava ccà cu te, ti faceva a spisa, ti cunzava u lettu, ti…” Don Tanu, che non voleva sentire questa  monotona litania settimanale, rispondeva: “Avi  a essiri di Patti la pignata pi veniri la minestra sapurita” e gli porgeva la pentola di creta per la pasta o il minestrone di fagioli, mettendo fine alla discussione. La signora Nunzia, così si chiamava, non si dava pace, non capiva come un bell’uomo come Tano non si fosse sposato, eppure su di lui si raccontavano avventure amorose che avevano fatto scalpore. Da buon campiere pare che oggetto delle sue “attenzioni” fossero le donne che lavoravano nei campi, nella vigna, nell’uliveto. Qualche diceria gli attribuiva dei figli che ignari padri hanno poi riconosciuto e cresciuto con sua grande soddisfazione.
Quell’unico giorno della settimana che i due pranzavano insieme, era una strana festa. Entrambi felici di essere in compagnia, al tavolo quadrato stavano seduti uno di fronte all’altra e consumavano il pasto senza dire una parola. Nunzia ogni tanto alzava gli occhi e guardava quell’uomo che, nonostante le rughe che gli incidevano il viso e la fronte, manteneva i suoi  bei lineamenti. Tano, sentendosi osservato, alzava per un attimo gli occhi, e dopo aver guardato  Nunzia ed aver  accennato un forzato sorriso, ritornava repentinamente sul piatto. Solo in quell’attimo lei riusciva a vedere quegli occhi azzurri, dai quali era rimasta attratta anche dopo sposata, ed avrebbe voluto mangiare ogni giorno con lui, solo per godere di questi pochi secondi di ebbrezza.
Una delle mattine dedicate alle visite da Tano, Nunzia trovò la porta chiusa, bussò, ma non rispose nessuno, eppure lui doveva essere li dentro sicuramente perché non aveva in programma di uscire. Tano programmava tutto settimane prima e, salvo imprevisti, lei lo avrebbe saputo. Preoccupata andò nella stalla per cercare la scala e tentare di salire nel balcone, ma la scala non c’èra. Di corsa andò in un casolare più avanti dove degli operai stavano facendo dei lavori e chiese aiuto. All’operaio che salì sul balcone non si presentò nulla di strano, Tano era a letto come se dormisse; bussò sui vetri ma non successe nulla. Su sollecitazione di Nunzia, sempre più agitata, l’uomo ruppe il vetro ed entrò seguito dalla donna. Tano era immobile in un mare di sudore ma respirava. Subito chiamarono in aiuto anche gli altri operai, che accorsero con generosità e quindi  il 118. L’ambulanza, che arrivò dopo pochi minuti,   lo portò  al pronto soccorso, da dove , dopo le prime cure, venne trasferito in cardiologia. Dopo poche ore il pericolo era passato, ma Tano fu trattenuto in UTIC.
Durante la degenza affidò la custodia della casa a Nunzia, rinnovando la raccomandazione di non salire sul soppalco; “Varda che haiu tutto signaliatu, se ‘nchiani dda suopra minn’addunu subitu e ni sciarriammu”, le disse.
Questa ennesima raccomandazione fece acuire però in Nunzia la curiosità e appena a casa, prese velocemente la scala e salì sul “pagghiaru segretu”. Niente, li sopra non c’èra nulla; era pulitissimo, anzi lucido, nemmeno un filo di paglia, né una foglia. Sulle pareti nemmeno un foro che potesse far pensare a un nascondiglio. Nunzia passò più di due ore a ispezionare  ogni angolo, ogni piccolo spazio o interstizio del tavolato, ma non trovò nulla. Delusa scese, tanto non c’èra nulla da lasciare in disordine. Ma se non c’èra nulla, cosa poteva avere  segnato Tano? Prese la scala per  riportarla in cucina, quando si rese conto che la stessa era strana, era leggera, troppo leggera per essere di legno e  pure troppo fredda. Appena in cucina la posò per terra e la ispezionò con cura. Sulla testa dei montanti  riuscì a togliere due specie di tappi. La scala era in alluminio foderata ad arte di una materia plastica che le dava il colore e la forma del legno. Dentro il primo montante,  che altro non era che un tubo, c’erano tante foto di donne, giovani, belle e meno belle ma formose, sul retro nome e cognome e, solo in alcune, un secondo nome. Nunzia le tirò tutte fuori e le posò sul pavimento.  Alcune sembrava di conoscerle, altre non sapeva nemmeno chi fossero. Rinviando a dopo l’approfondimento dell’indagine che da donna innamorata e gelosa ormai avrebbe voluto fare, aprì l’altro montante e con grande sorpresa tirò fuori soldi, tanti soldi, banconote da cinquanta e da centomila lire; tirò fuori quelli che poté, poi prese la scala la riportò nella stalla, salì sul soppalco, la girò sottosopra e battendola fece uscire tutto ciò che custodivano i due montanti, quindi ridiscese, raccolse tutto e ritornò in cucina, si chiuse dentro e cominciò a contare i soldi. Erano poco più di sessantacinque milioni. Rimase immobile per un po’ a guardare tutto quel ben di Dio. Poi vide una busta, la aprì; dentro vi erano una serie di nomi, esattamente dodici, con sotto il nome e il cognome di una donna maritata con  il nome del marito. In fondo queste parole: Se stai leggendo sta littira voli diri che io ho già tri palmi di terra i supra; con stu atto di curiosità ti sei autonominato esecutore delle mie ultime voluntà e quindi a te dogno le seguenti disposizioni: i sordi che hai trovato, li devi spartìri in parti uguali alle famigghie di cui ci sunnu i nomi supra; quindi una volta fattu chista cosa in maniera corretta, vai dal nutaru, dicci tutto e fa in modu che iddu pò controllari. Una volta verificatu la correttezza dell’esecuzione del mio vuliri , il notaro ti consegnerà chiddu ca  resta dei miei beni dai quali ti arriverà un vitalizio che dovrai dividere con le succitate famigghie e fino a quando non mi raggiungerai ca sutta, Stai attento pirchì se tu pinsassi di fare il furbo, ti perseguiterò per tutto il resto della vita e ti tirerò li pedi mentri ca dormi e ti raccumannu sii omu, veru pattisanu, tutto chiddu ca liggisti tegnitillu pi te.”.
Nunzia sudava freddo, non avendo  il ruolo che le imponeva la lettera, cercò di mettere tutto com’èra prima, ma era cosciente di non esserci riuscita e quindi una certa ansia la stava assalendo. Ora capiva a cosa si riferiva Tano quando diceva di avere tutto segnato. Il fatto che lui non avesse parenti, in caso di disgrazia, pensò la donna, l’avrebbe avvantaggiata ora che sapeva tutto.
Confidando sulla fortuna, seguì con l’amore che le era solito la degenza di Tano e, quando fu dimesso, la sua convalescenza. I medici avevano raccomandato a Tano di non sottoporsi a sforzi fisici, ma nonostante ciò, testardo com’èra e  lavoratore di razza, continuava  ad accudire l’orto e mal accettava la vicinanza, le attenzioni e le raccomandazioni amorevoli di Nunzia.
Una mattina la donna,trovò la porta della cucina  aperta, e non sentendo alcun rumore, cominciò a chiamare ad alta voce senza ricevere alcuna risposta. Si mise a girare nell’orto e  trovò Tano riverso ma con il viso rivolto vero  la Cattedrale normanna di S. Bartolomeo che, dalla collina di fronte guardava quella proprietà  ed era la sua prima interlocutrice giornaliera. Stavolta, Nunzia, avrebbe dovuto eseguire il testamento. La poca acqua che scorreva nel torrente Provvidenza, continuava indifferente la sua corsa con i soliti ritmi, ignara del fatto che da quella mattina sarebbero state  di meno le persone le cui fatiche giornaliere venivano  addolcite  dalle sue variabili melodie.
Una volta tumulato il povero Tano, in un loculo concesso a prestito dal comune, la donna riaprì la scala e diede corso alle ultime volontà di quell’uomo che il destino aveva voluto legare a lei in una maniera così strana.
Finite le consegne alle famiglie elencate nella lettera senza trovare alcuna difficoltà  e ricevendo in cambio solo un grazie e un generico impegno a portare dei fiori sulla tomba del generoso donatore, Nunzia andò dal notaio che, dopo aver verificato l’esatta esecuzione della volontà del de cuius, passò alla seconda parte del testamento riconoscendo, in mancanza di eredi, Nunzia come unica persona che avesse diritto a ereditare i beni di Tano.  Il Magnifico procedette quindi e cominciò ad elencare: Lascio il casolare e il fondo sul quale insiste, due appartamenti a Patti centro, tre magazzini a Patti centro, un villino a Mongiove, un appartamento a Messina , un appartamento a Roma Parioli…  Nunzia era scioccata, non riusciva ad aprire bocca. Infine il notaio lesse l’ultima parte del documento: “Ed infine a te mia cara Nunzia, perché so che sarà la tua curiosità di donna innamorata ad averti portato qua, faccio dono della somma di lire cinquanta milioni che userai per vivere tranquilla da sola e con una parte per acquistarmi un sepolcreto nel quale vorrei essere tumulato, dopo essere stato tolto da quell’orrendo vecchio  posto prestato, e nel quale potrai raggiungermi serenamente fra cento anni. Tengo a precisare che sono soldi guadagnati onestamente che provengono dalla  gestione  delle proprietà degli altri che, tanto, non mi hanno mai retribuito.  Un’altra cosa Nunzia: iò sacciu ca i pattisani hanno tanta fantasia quando debbono pittuculiari, cerca di non ti iunciri a iddi; in fin dei conti pi na vita ti sentisti comu a mia mogghi e accussì ti devi cuntinuari a cumpurtari ”.  A Nunzia vennero meno le forze e si accasciò. Si svegliò poco dopo in un letto dell’ ospedale  “ Barone Romeo”dal quale, dopo qualche ora, uscì per riprendere quella vita che aveva sognato con il suo Tano e che lo stesso , da morto, le consentiva di vivere da… signora. Forse era stato veramente innamorato segretamente di lei e solo di lei, per questo, in fin dei conti, l’aveva sempre rispettata
.
FINE




DORINO
(favola)

             C’era una volta.

            Anzi no. Intorno alla mia città c’è un monte, non molto alto, ma bello; tutto pieno di alberi quasi sempre verdi. In autunno qualcuno diventa giallo per via del colore delle foglie che cadono, ma non sta male, anzi aggiunge altro colore a quelli che già ci sono.

            Questo monte io l’ho sempre chiamato “Mio”; non perché è di mia proprietà, magari, ma solo perché ogni mattina, appena mi svegliavo da bambino, aprendo la finestra, il primo a darmi il buon giorno era lui.

            Mio mi sembrava un grosso animale amico, accucciato davanti a casa mia come se qualcuno lo avesse collocato la per fare la guardia, per difendermi; ed io approfittando della sua sontuosa e silenziosa bontà, mi sentivo sicuro.
            La mattina, da dietro i vetri ci davamo il buon giorno, la sera le molti luci che evidenziavano la sua presenza in lunghezza ed in altezza mi davano la buona notte, ad una ad una, lentamente, fino a quando solo la luna e le stelle ne disegnavano il profilo.

            Ogni giorno  che passava si Mio spuntavano nuove case. A me sembravano  brufoli, piccole ferite che si aprivano in mezzo a quei colori sempre meno verdi e sempre più grigi.
            Io sentivo che Mio soffriva e qualche volta era come se mi chiedesse aiuto.
            Per Mio gli alberi erano come sono il pelo o le piume per gli animali, e  ogni qual volta, una ruspa iniziava un lavoro era come se un rasoio gli stesse radendo i peli.
            Ma io che potevo fare? Solo un miracolo poteva fare rinsavire gli uomini ….oppure una magia poteva accendere la speranza di sistemare le cose in modo che Mio e gli uomini potessero trovare una soluzione equa.
            Un giorno mi ricordai di una favola che mi raccontava la mia nonnina.
            Dovete sapere che la mia nonnina era una meravigliosa vecchietta con i capelli lunghi, tutti bianchi, di un bianco brillante che sembrava fatto apposta dal maestro parrucchiere, e due occhi celesti, belli dolci, più dolci di un bignè. Mi voleva bene la mia nonnina e quando l’andavo a trovare, ogni domenica, mi faceva trovare le castagne secche, le noci, le noccioline, i fichi secchi; li teneva chiusi in una cassa. Erano i nostri dolci e li custodiva gelosamente solo per noi, per i suoi nipoti.
            Allora questa mia nonnina mi raccontò che una volta sulla spiaggia della Plaja, comparve uno strano pesce, grande quanto un gatto, di colore rosa con sfumature bianche sulla pancia; molto bello a vedersi. Se ne parlò parecchio fra i pescatori perché non si era mai visto un pesce così nei nostri mari. Ma siccome sembrava morto nessuno gli dedicò qualcosa più di uno sguardo e di una breve considerazione sul colore.
            Vicino la spiaggia, dove c’era un agrumeto di aranci che qui ancora si chiama giardino, abitava in una vecchia piccola casa un signore anziano, bassino, capelli bianchi e un po’ lunghi, vestiti vecchiotti ma puliti.
            La sua età e gli acciacchi provocati dall’umidità lo avevano costretto a camminare curvo su un bastone fatto appunto con un ramo di arancio.
            Quella mattina nella quale apparve il curioso pesce, il vecchietto che tutti chiamavano “Don Turi”, vide l’insolito movimento sul quel tratto di spiaggia, di solito poco frequentato, e da dietro la “supala” , così si chiamano ancora certi siepi divisorie, si mise ad osservare le scene ed ascoltare, senza essere visto, i commenti. Quando verso le undici, finirono le visite, volle scendere sulla spiaggia per guardare anche lui lo strano animale. La sua statura resa ancora più limitata per via degli acciacchi, gli consentì di guardare più da vicino, rispetto agli altri. Ciò gli diede modo di accorgersi che l’occhio del pesce non era spento, anzi. La stranezza lo incuriosì tanto che, forse pensando ad un succulento ed abbondante arrosto, lo prese e lo portò in casa.
            Con riguardo lo posò sul tavolo e, girandogli le spalle, rovistava nell’unico stipetto che aveva, in cerca di aromi per il condimento.
            Non avendo trovato nulla, e ormai rassegnato ad usare solo un po’ di sale, si rigirò, ma il pesce era sparito.
            In preda un ad una visibile arrabbiatura, con la sua velocità, si mise a cercare negli angoli della casa e poi fuori, imprecando contro il gatto, che da unico compagno di solitudine  si era trasformato, nella sua mente, in un ingordo, famelico traditore.  Invece di dividere con lui il lauto pasto, aveva preferito arraffarlo tutto per se e pure crudo;mascalzone!
            La cosa stava diventando seria perché Don Turi non riusciva a trovare ne il gatto né il pesce né , una qualsiasi traccia del misfatto.
            Dopo mezz’oretta di ricerche, il povero vecchio sentì il miagolio del suo compagno. Pensò subito che stesse tornando , gli  preparò una bella lezione, di quelle che non avrebbe facilmente dimenticato.
            Invece il miagolio non si avvicinava, anzi sembrava trasformarsi in un richiamo di aiuto. A questo punto don Turi ormai più preoccupato per il gatto, che arrabbiato per la scomparsa del pesce, uscì e seguì il richiamo che proveniva dall’agrumeto.
            Quasi al centro del giardino, su un arancio più alto degli altri, il suo gatto con gli occhi sbarrati ed il pelo raddrizzato sulla schiena, miagolava e guardava fisso l’albero di fronte. Don Turi , prese il suo amico, che si acquietò e proseguendo con lo sguardo, vide l’albero di fronte stranamente pieno di zagara e, in mezzo ai rami seduto, un bel bambino sui due anni con un pannolino bianco ed uno strano cappellino rosa.
            Sulle prime il vecchietto ebbe un sussulto, poi , quando si accorse che il bimbo gli sorrideva e gli tendeva la mano, si avvicinò, lo guardò bene davanti e di dietro quindi gli tese anche lui la mano. Don Turi non seppe resistere a quello sguardo dolce e  coinvolgente; lo prese in braccio , fece scendere il gatto a terra che con la coda dritta per aria lo anticipava fino a casa.
            Ma chi era questo pargolo? Come era arrivato lì? Come era salito sull’albero? Si chiedeva; Il bambino lo guardava e gli sorrideva. Camminava spedito per la sua età. Mano nella mano i due si guardavano spesso negli occhi con il rischio di sbattere in qualche albero.
            Appena arrivati  a casa, il vecchietto, sistemò il piccolo sopra una sedia e disse:- ecco qui, non muoverti, vado a vedere se trovo qualche camicia che non mi sta più e te la metto addosso; stando così prenderai freddo- .
            Come faccio ora, pensava don Turi mentre rovistava fra i pochi vestiti che possedeva, con un bambino così piccolo, io che non sono stato sposato, non ho avuto figli e quindi nemmeno nipoti?
            -Non preoccuparti nonnino- sussurrò un vocino dolce e suadente; 
            Don Turi si girò di scatto verso la porta, poi guardò la finestra, quindi uscì sull’uscio, niente non c’era nessuno.
            Il vocino tornò con un risatina- sono io, chi cerchi?-
La voce era del bambino che nel frattempo  era  salito sul letto.
-Tu? Mi hai fatto prendere un accidenti! Bene allora parli? E dimmi come ti chiami?-
-Dorino, mi chiamano così- rispose il bambino;
-Dorino? Che strano nome. Ma chi ti chiama così? Da dove vieni?- riprese don Turi;
-Vengo  da lontano, molto lontano, da un posto che esiste solo per me e per i miei. La mia mammina mi chiamava Dorino per via del colore della mia pelle; guardala bene non è come la tua- e così dicendo con la manina invitò don Turi a guardarlo da vicino.
Don Turi non vedeva molto bene, quindi inforcò un paio di occhiali ai quali mancava un’asta e li pose sul naso la cui punta era particolarmente rossa per via del sole che prendeva.
Ispezionò con attenzione il corpicino di Dorino  e si accorse che dai pori della pelle, spessissimo spuntavano dei piccolissimi puntini dorati. Era come se il piccolo trasudasse oro liquido. Il vecchio incuriosito lo toccava con le sue dita callose ed il bimbo si solleticava e rideva, ma lo lasciava fare, finché escalmò:
-La mia mamma, mi ha buttato in mare per salvarmi da un mago cattivo che voleva usarmi come miniera. Lei è una fata buona e così mi ha trasformato in pesce e mi ha consegnato al mare con la speranza che, chi mi avesse pescato, avesse l’animo tanto buono da farmi ritornare bambino-
-Ma che dici?- disse don Turi sospendendo l’ispezione e guardandolo con meraviglia e curiosità- Mi prendi in giro? Che favole mi racconti? Non esistono le fate, i maghi etc etc.-
-Ah no?- disse Dorino sorridendo- non ci credi? Guarda qui- e subito il bambino apparve vestito in maniera elegante e sobria, di tutto punto fino alle scarpe!
-Mamma mia, come hai fatto?- chiede il vecchietto indietreggiando quasi spaventato;
-E’ un potere che mi ha dato la mia mamma quando sono nato, circa 2500 anni fa-
-Senti, Dorino, io sono un povero vecchio, non raccontarmi frottole, ti prego, potrei rimarci male, anzi secco!!-
-Ma non sono frottole; sono rimasto bambino perché ho vagato per mari in cerca di un animo buono; ora che tu mi hai fatto ritornare bambino, vuol dire che quell’animo buono l’ho trovato. Da questo momento comincio a crescere. Conserverò i miei poteri che sono solo per gli uomini che credono nella bontà e vogliono soltanto il bene dei loro simili e del mondo nel quale vivono. Quindi, nonnino, puoi chiedermi ciò che vuoi.
-Veramente?proprio tutto?-chiese il nonnino:
-certo, proprio tutto- rispose Dorino,
-allora…fammi pensare…voglio, voglio, anzi desidererei che tutta la campagna che vedo diventi verde, prosperosa, in fiore; che dia tanti frutti in modo che tutti ne possano mangiare e che quindi anche chi non può comprarla, possa goderne; desidererei che tutti gli animali trovassero nella campagna, la sicurezza e il cibo necessario per  vivere con tranquillità, in pace con gli uomini ed in armonia con tutti i bambini-;
E così fù; man mano che don Turi esprimeva i propri desideri, gli alberi crescevano e si moltiplicavano; i fiori sbocciavano e riempivano l’aria di profumi e la campagna di colori; gli uccelli diventarono tantissimi, volavano da albero in albero cantando ;  così tutti gli altri animali; le pecorelle, le caprette; spuntarono i conigli e le lepri che giocavano con i cani e si rincorrevano con i gatti; le farfalle passavano di fiore in fiore e tracciavano nell’aria arcobaleni con tantissime sottili strisce colorate; le api producevano tanto miele che bastava per uomini e per gli altri animali. Tutto sembrava muoversi agli ordini di un maestro che mandava segnali armoniosi in maniera che tutto ciò che viveva lo faceva con gli altri e per gli altri. Era il sogno di una vita e don Turi divenne l’uomo felice nel magnifico giardino che dorino gli aveva creato.
Ecco di cosa avevo di bisogno per il Mio monte, avevo bisogno di Dorino, ma come potevo fare. Certo se fossi stato nella favola di mia nonna mi sarebbe stato facile, ma ahimè  ne ero fuori. Peccato avrei potuto salvare “Mio”. Ma mentre pensavo convinto a queste cose, la tristezza  prese in me il sopravvento, perché mi rendevo conto che nonostante quella favoletta sembrasse vera, non avrei mai avuto la possibilità di incontrare un Dorino al quale chiedere di salvare il monte, il Mio monte che soffriva tanto. In quel momento era la cosa che desideravo di più.
Mentre pensavo e guardavo Mio con gli occhi quasi pieni di lacrime, davanti alla finestra vidi, seduto su un ramo dell’albero che c’era nel giardino davanti a casa mia, un bambino che sembrava lui, si: Dorino. Mi sorrideva e... poi l’albero diventò verdissimo , le piante intorno misero i fiori , piano piano le case si coprirono di verde , comparvero tanti colori , una nuvola di uccelli si diradò sul monte fino a sparire negli  alberi ed il profumo dei fiori arrivò sino a me. In quel momento mi sono reso conto che ero stato io a volere Dorino, a volerlo per salvare il Mio monte con tutti i tesori che nasconde e che produce. Si lo avevo voluto io; avevo voluto una cosa buona e si era realizzata!
Mi rendevo conto che quando le cose che si vogliono sono buone o a fin di bene si possono realizzare, subito...basta volerlo, volerlo veramente e con il cuore.


FINE



PEDALA MICHELE !
          (racconto breve)

            Il cigolio degli ingranaggi senza grasso accompagnavano Michele in quei budelli che fungevano da vicoli fra le baracche. Pozzanghere unte si succedevano a ristagni di acqua lurida e non c’èra il tempo di fermarsi e scrollare dai pantaloni il sudiciume che si accumulava.
            In quella zona della città le giornate erano tutte uguali con o senza il sole. Nessuno degli abitanti aveva la voglia di godersi la natura. Di questa grande madre qui non c’era traccia: niente alberi, nessun fiori, né una fontana, e nemmeno uccelli.
Messina viveva una delle sue solite giornate piatte. Ai cittadini non importava nulla,vivendo questo stato di apatia quasi con coscienza e con la rassegnazione di chi ha affidato il proprio avvenire  ad inetti, forse da sempre.
            Ciò che la città così detta civile rifiutava, era concentrato in quelle misere abitazioni: blatte, topi, zanzare , puzze diverse, schifezze varie. Questa era quella parte della natura della quale godevano quei cittadini di serie C.  
            Arrivato sulla soglia dell’abitazione di Maria, con una leggera spinta aprì la porta fatta da faisite e compensato e pose sul tavolo di plastica la borsa.
Maria non c’è” ; si sentì flebile la voce della signora Carmela dal letto. “ E’ andata dal medico per le solite medicine”. Un violento colpo di tosse le impedì di continuare a parlare.
            Michele le si avvicinò , la sollevò dalle  spalle e  le porse un vecchio sgualcito fazzoletto che la donna teneva su una sedia di rafia, sulla quale un vistoso buco consigliava prudentemente di non sedersi.
            Michele era un ragazzino di diciotto anni compiuti da poco, fisico asciutto, bruno, occhi verdi, figlio di un notaio. La madre lo aveva lasciato orfano a dieci anni ed il padre , quarantenne, si era subito consolato con un’altra donna della Messina bene, figlia di un noto imprenditore cittadino.
            Maria, quattordicedicenne, viveva in una delle centinaia di baracche che il terremoto del 1908 aveva lasciato in eredità ai Messinesi per responsabilità dei politici e dei governanti che quasi in un secolo avevano elargito solo promesse di eliminare quelle vergogne. Fiumi di parole e di denaro pubblico sperperati su quella povera gente ormai giunta, in quelle topaie, alla terza generazione. In quel tugurio la ragazzina accudiva alla propria madre perennemente ammalata di bronchite, con le ossa pervase da artriti e artrosi che lentamente la stavano consumando. La povera signora passava più tempo a letto che in piedi , anche se la permanenza in quell’ambiente le cagionava maggior danno che una vita all’aria aperta.
            Maria era magra, la carnagione chiarissima mascherava quel pallore che la vita che conduceva le procurava.  Gli occhi neri, i capelli nerissimi, sottili e lucidi le facevano risaltare ancora di più i dolci lineamenti del viso. Nonostante i pochissimi vecchi vestiti riciclati era sempre pulita e ordinata e così cercava di mantenere quella baracca ereditata dalla sua bisnonna. Rimasta da qualche mese orfana  del padre che faceva il rigattiere, viveva con la madre, che quando poteva andava a servizio.
Non aveva mai pagato tasse, tributi vari e nemmeno la corrente elettrica . Conoscendo lo stato in cui viveva, nessuno dei vicini le aveva mai chiesto di pagare la sua parte, anche perché, forse, l’allaccio era abusivo come tanti. Ma considerando che difficilmente avrebbe potuto pagare, il problema lei non se l’era mai posto.
            I due ragazzi si erano conosciuti a scuola dove fortunatamente, le classi sociali ormai erano , quasi da tutti, considerate una discriminante anacronistica; lei faceva il primo e lui era di maturità, anche se  con un anno di ritardo perché ripetente. Michele infatuatosi della ragazzina si era mostrato subito disponibile ad aiutarla a superare le difficoltà che quotidianamente Maria doveva affrontare. Di nascosto al padre e alla matrigna, ogni giorno aveva qualcosa per lei o per sua madre e, non di rado, anche per i vicini di casa, alcuni dei quali cominciavano a chiedere, quasi a pretendere.
            Con la scusa di andare a studiare dai compagni di scuola o all’oratorio, quasi tutti i pomeriggi usciva; nel viale S.Martino prendeva il mezzo pubblico fino alla zona del policlinico, dove, nel retrobottega di un amico, teneva una vecchia bici con la quale si inoltrava nel dedalo degli angusti spazi che dividevano le baracche.
            Maria, ovviamente era felice di questa amicizia e ricambiava l’affetto che Michele non mancava di dimostrarle quotidianamente.
            Un giorno il ragazzo , puntuale nonostante la pioggia, trovò la casa vuota.
Da una vicina venne a conoscenza che la signora era stata ricoverata d’urgenza al policlinico per un improvviso aggravamento del suo stato di salute. Tornò indietro e, non conoscendo i termini e le divisioni per patologie dei padiglioni, faticò non poco a trovare quello giusto, ma della signora Carmela nessuna traccia.  Su suggerimento di un visitatore ritornò al pronto soccorso. Maria era lì a fianco della madre, che aspettava la visita. Michele si mise il vestito da uomo e chiese prima ad un infermiere e poi ad un medico quanto ancora dovesse aspettare quella signora che cominciava a respirare con fatica. Nessuno gli diede retta, finchè passò un ragazzo con il camice da medico, che vedendo la donna in affanno, subito si avvicinò. Si rese conto della gravità della situazione e chiamati gli infermieri, cominciò ad interessarsi di lei. Si presentò come un tirocinante. Il medico di servizio su sollecitazione del giovane ,  dopo una breve visita e le cure più immediate, ne dispose subito il ricovero, diagnosticando una broncopolmonite in fase acuta.
“Che significa” chiese subito Michele al tirocinante.
“E’ tua madre”? gli rispose questi
Michele temendo che non gli dicessero nulla, annuì. “ Significa che è grave ed ha bisogno di una terapia d’urto immediata ed energica”.
“Ma grave quanto?” chiese Michele preoccupato
“Grave” rispose l’altro. I due seguivano la barella alla quale si era attaccata Maria che teneva la mano della madre. Arrivati al reparto, il tirocinante cercò il medico e quindi la caposala per consegnare il referto del pronto soccorso ed assistere la signora. Il gruppetto aspettava;  gli sguardi dei quattro si incrociavano in un eloquente ma silenzioso desiderio di sapere.
“Come ti chiami” ?
“Michele, lei è Maria e la signora è mamma Carmela”
“mamma di chi ?” chiese il tirocinante
“E lei come si chiama ?” continuò Michele come se volesse prendere tempo per non rispondere alla domanda
“Io mi chiamo Giuseppe, per gli amici Beppe. Se ti va puoi considerarmi un tuo amico”
“Certo, perché no?” rispose dimostrandosi lusingato il ragazzo.
“ E pure tu Maria, puoi chiamarmi Beppe” così dicendo le porse la mano che la ragazza strinse forte, come per cercare tranquillità. 
“Ora che siamo amici, potete dirmi come stanno le cose, io credo che tu e lei non siete fratello e sorella
“Va bene” sospirò Michele “ la signora è la mamma di Maria, io sono solo un amico” e quindi continuò “ ma se siamo amici come hai detto, ti prego di considerarmi uno della famiglia altrimenti potrei avere difficoltà a stare loro vicino; sai, sono sole, non hanno parenti, e diciamo che io mi sento l’unico uomo della famiglia”
La ragazza annuiva e sorrideva.
“ E’ il piccolo nostro segreto” , fu la risposta di Beppe. La discussione fu interrotta dalla caposala e poi da un infermiere che, senza nemmeno salutare, riprese a spingere la barella fino alla corsia.
            Il gruppetto rimase unito ed assistette alla compilazione della scheda con i dati che parte fornì, con grande fatica la signora, e parte la figlia. Michele e Beppe  guardavano da un’altra parte per evitare di essere coinvolti in quella specie di interrogatorio.
            Il medico del reparto, intervenuto nel frattempo, dopo aver letto il foglio di ricovero ed aver sentito il tirocinante, dispose l’immediata esecuzione degli accertamenti clinici e diagnostici che il caso richiedeva. Comunicò ai ragazzi che non sarebbe stato possibile assistere direttamente la madre, ma che potevano stare comunque tranquilli in quanto non le sarebbe mancato nulla. In ogni caso, il tempo giornaliero stabilito per le visite sarebbe stato loro sufficiente a rendersi conto della situazione.
Beppe assicurò i due ragazzi  sulla sua costante presenza ed assistenza.
            Ventitre anni fatti, disse che era al quarto anno di medicina e stava già preparandosi per discutere la tesi. Sembrava decisamente  bravo come uomo e ben promettente come medico . Questa era la convinzione che si era fatta la  ragazza nella quale era nata una istintiva simpatia verso quel giovane che pareva ricambiare gli stessi sentimenti.
            Maria e Michele tornarono a casa di lei.
            Quell’apparente tranquillità infusa da Beppe, si tramutò in meraviglia e quindi in disperazione per la ragazza quando, entrando in casa la trovò saccheggiata. I pochi arredi aperti e svuotati. Le misere cose buttate per terra. I pochi vestiti calpestati.
            “Ma cosa è stato?” esclamò Michele
            Maria non disse nulla, si gettò sul letto e si mise a piangere; fra un singhiozzo e l’altro ripeteva “ sicuramente sarà stato lui, ancora lui, ma cosa vuole da me, da mia madre, perché non ci lascia in pace?”  
“Lui chi?” rispose Michele
La ragazza continuava a piangere senza dire nulla. “Ma insomma mi vuoi rispondere?” riprese lui.
Dopo essersi asciugati gli occhi con la mano, Maria si sedette sul letto e con un cenno invitò l’amico a mettersi a fianco a lei, cosa che quest’ultimo fece senza farselo ripetere.
“Mia  madre ha un fratello di dieci anni più giovane e quindi di ventuno anni. Da quando ne aveva  sedici è andato a vivere da solo in un’altra baracca insieme ad un suo coetaneo, rimasto solo a seguito dell’arresto dei genitori per spaccio di droga, furto, scippo etc. Facevano parte di un gruppo di immigrati clandestini provenienti nemmeno io so da dove; non sono mai riuscita a capirlo. Mia madre sa che quella buonanima di mio padre, che tanto buono non era, facendo il rigattiere aveva accumulato un bel po’ di denaro sulla cui quantità nessuno ha mai saputo nulla”
“E dov’è questo denaro ora, in quale banca?” l’interruppe Michele.
“Ma quale banca? Lui diceva sempre che i veri ladri erano nelle banche e che quindi il posto più sicuro era in casa. Mia madre è certa che lo teneva nascosto qui dentro, ma nonostante gli spazi siano tutti a vista, non siamo mai riusciti a trovare nulla.”
“ Scusami e quella specie di zio come sa dell’esistenza di questi soldi?”
“Perché mio padre quando era ubriaco sparlava e per sparlare si è distratto ed è rimasto schiacciato sotto una massa di ferri vecchi  morendo sul colpo. Quel delinquente sa e, appena, trova l’occasione, viene a rovistare sperando di trovare qualcosa”.
“Ma se sei sicura che questi soldi sono qui dentro, bisogna cercarli con più attenzione” continuò Michele alzandosi e guardandosi intorno. Tutto ciò che doveva vedere però era a portata d’occhio, non vi erano altri vani con esclusione di un piccolo wc con annesso lavandino ed un braccio doccia che sgocciolava per terra e scaricava direttamente fuori attraverso un tubicino di plastica.
            Il ragazzo si guardava intorno cercando di immedesimarsi nella mente della buonanima per capire quale, secondo lui, poteva essere un posto sicuro. Dopo un po’ disse “ ma stasera che fai resti da sola? Io non ti lascio dopo quello che è successo”.
“Non preoccuparti non è la prima volta che succede, sono rimasta da sola anche quando ero più piccola e mia madre faceva la badante”.
“Ma ora sei una donna quasi fatta, e sappiamo bene tutti e due che l’ambiente che ti circonda non è dei più sicuri”.
“Per te forse, ma per me che sono nata e cresciuta qui non ci sono pericoli, a meno che…..”
“A meno che?” riprese il ragazzo.
“A meno che non venga gente da fuori zona, e per la verità qualcosa di spiacevole già è successa”
“Allora adesso facciamo un po’ d’ordine, chiudiamo qui e vieni con me”
“Vengo con te? E dove mi porti?” Continuando con un sorrisino malizioso “ facciamo la fuitina? Ormai non è più di moda”.
“Ma che fuitina?Ti porto a casa di un amico mio; qui vicino ha un negozio con sopra un appartamentino vuoto”.
            Fra reciproci sorrisi e sospiri , in pochi minuti rassettarono ciò che si poteva. Nonostante non lo dicessero ambedue  avevano premura di trovarsi in un posto sicuro, da soli.
            Salirono quelle scale quasi come due clandestini anche se l’amico li aveva autorizzati. Michele aveva telefonato ai suoi avvertendoli che per quella notte sarebbe rimasto a dormire dal suo amico; non essendo la prima volta, la cosa era passata senza particolari patemi d’animo.
            Nonostante si conoscessero da quattro mesi, non era mai capitato che si trovassero soli in un camera da letto matrimoniale. Non potevano immaginare che la timidezza potesse condizionarli a tal punto da farli andare a letto vestiti.
            Si guardavano negli occhi con le teste che scivolando sui cuscini erano sempre più vicine, fino a quando le loro labbra si sfiorarono, si unirono.  Di colpo fu come se fossero  esposti al sole di agosto in una spiaggia isolata con il mormorio del mare  e il canto dei gabbiani che sembrava dolce come quello delle capinere. Si tolsero i vestiti lentamente , un capo alla volta ma sempre con meno timidezza. La pelle bianca di Maria, i seni piccoli ma turgidi con i capezzoli rosei e irti si contrapponevano al dorso di Michele nel quale i pettorali e gli addominali percorsi da un rivolo di morbidi peli , mostravano un uomo quasi maturo.
            Il mattino li colse raggianti. Il sole era già alto e nemmeno il casino del traffico delle ore di punta era riuscito a svegliarli prima. Erano le undici e dovevano andare al policlinico a trovare mamma.
            A mezzogiorno si trovarono nel reparto. Carmela li mise al corrente sugli accertamenti eseguiti fino a quel momento e dei quali comunque non aveva ancora alcuna notizia.
            Rimasero lì fino alle quattordici. Due ore sufficienti a mettere al corrente la signora su ciò che era successo a casa e a studiare eventuale rimedi.
            Non volendo denunciare il proprio fratello, anche se delinquente, Carmela non seppe dare alcuna indicazione sull’eventuale nascondiglio ma anche lei era certa che questi soldi da qualche parte dovevano essere “ tuo padre, pace all’anima sua, non mi ha mai reso partecipe delle sue attività né tanto meno mi ha mai informato sui suoi guadagni. Mi dava tanto quanto bastava per sopravvivere. Era un tirchio e molti soldi li investiva al gioco e a puttane senza contare le sbornie che lo accompagnavano quasi ogni sera”. Diceva queste cose con tristezza ma anche con una stizza di rabbia.
            “Io ho un’idea” disse Michele “ mentre lei è in ospedale, noi smonteremo la casa e faremo una ricerca accuratissima, palmo per palmo. Tanto per ora abbiamo dove dormire e per mangiare ci arrangeremo per un paio di giorni”.
            Non potendo fare altro, Carmela acconsentì, raccomandando ai due ragazzi di stare attenti sotto tutti gli aspetti.
Quel pomeriggio stesso cominciò il controllo minuzioso della baracca. Furono accatastati i pochi mobili, smontata la cucina, battuto il pavimento palmo a palmo per cercare eventuali vuoti. Nulla, non fu trovato niente. Stanchi, sporchi e sfiduciati decisero di sospendere e riprovare il giorno dopo.
Michele prima di uscire si volle fare una doccia. Mentre l’acqua  scivolava sulla testa che teneva curva in avanti, notò che non tutta  veniva smaltita attraverso quello scarico che dava direttamente  fuori; si abbassò e si accorse che dalle fughe delle mattonelle salivano minuscole bollicine che si notavano solo in assenza di sapone. Grattò con il dito in mezzo a quegli spazi e vide che sotto una leggerissima patina di cemento vi era una rete a maglie sottilissime che sembrava di acciaio.
            Subito chiuse l’acqua, chiamò Maria , si fece portare un giravite ed un martello e scoprì che sotto le mattonelle vi era una struttura in alveolato formata da mattoni forati protetti da una guaina  in carta catramata. Ruppe tutto e trovò che all’interno di ogni foro dei mattoni vi erano arrotolate banconote da 50, 100  e 200 euro. Ridendo, quasi nevroticamente, estrassero tutti i mattoni avendo cura di non rompere le piastrelle del pavimento; otto mattoni avevano i vuoti riempiti da banconote arrotolate di vario taglio , tre erano ancora vuoti. Si assicurarono che la porta e le due finestre fossero chiuse e quindi si misero a sistemare per terra le banconote dividendole per tipo. Alla fine contarono 185.000 euro. Non era una grande cifra ma più che sufficiente per soddisfare alcune esigenze primarie della piccola famiglia. Non potendo aprire un conto in banca perché la signora Carmela era ancora impossibilitata a farlo, sistemarono i soldi in una borsa di Carmela e non senza timore si trasferirono nell’appartamento dell’amico.
“Bisogna dirlo a tua madre” disse Michele
“Ma i soldi li lasciamo qui? E se le chiavi ce li ha qualcun altro?”
“Non preoccuparti, da tua madre andremo uno alla volta. Per stasera ormai ce ne staremo dentro. Domani tu andrai all’ospedale ed io resterò di guardia qui”
Maria lo guardò seria “ Ma che hai non ti fidi?” la richiamò Michele.
“Certo che mi fido, perché non dovrei? Stava pensando a quello stronzo di mio zio. Aveva ragione e sapeva”.
La notte passò insonne. Lei faceva programmi che riguardavano sia lo loro vita insieme sia l’utilizzo di quei soldi. Verso l’alba il sonno ebbe ragione e i due si svegliarono in tarda mattinata.
            A mezzogiorno Maria andò a trovare la madre. Lì trovò Beppe che stava cercando di spiegare a Carmela i risultati delle analisi e degli accertamenti avendo cura di non allarmarla eccessivamente.
Quando ebbe l’occasione chiamò la ragazza  nel corridoio e la mise al corrente sul gravissimo stato nel quale si trovava la donna. Il giovane medico fu molto chiaro e non nascose la possibilità di altre conseguenze se non le fossero assicurate con costanza tutte quelle cure che il caso richiedeva soprattutto una volta dimessa dall’ospedale, nel quale, comunque sarebbe dovuta rimanere ancora alcuni giorni.
Poi, visto che era sola, si offrì di accompagnarla a casa. Maria non voleva, si vergognava a portarlo nella baracca: “ Guarda che so dove abiti, tua madre mi ha detto tutto. Non preoccuparti anch’io vengo da una situazione di degrado simile alla vostra, e pure sono qui. Con grande fatica e grandi sacrifici dei miei genitori, sto cercando di inserirmi nella società che conta . Ci sono quasi riuscito. Certo è difficile partecipare alle feste, alle gite, ai divertimenti che i miei colleghi organizzano spesso; non sono nelle condizioni economiche di reggere i loro ritmi. Ogni volta debbo inventare una scusa per non andarci e ciò rischia di isolarmi da quel mondo che, in questa bella ma triste città, comanda. Nelle scuole materne ed elementari i genitori  applicano una sorta di selezione, inculcando nei bambini la convinzione di essere diversi e superiori ai  coetanei che vivono  nelle zone emarginate. Indottrinamento che poi, da adolescente e fino alla laurea, fortunatamente , scompare, anzi i giovanissimi fraternizzano, solidarizzano, superano tutte quelle barriere sociali che gli adulti hanno eretto. Poi man mano che  si cresce, queste barriere cominciano ad essere ricostruite e il triste fenomeno si perpetua negli anni”
Maria ascoltò con attenzione e il pensiero andò a Michele, a quella loro storia che stava seguendo esattamente quel copione ormai consunto ma sempre attuale in quella porzione del mondo messinese che viveva fra l’ipocrisia della media e alta borghesia e la demagogia della classe politica.
I due si avviarono verso casa e si addentrarono fra le baracche. Beppe , forse per non mettere in difficoltà la ragazza, ostentava disinvoltura come se di quelle zone fosse stato un frequentatore e lei ogni tanto lo guardava per scrutarne le reazioni.
Arrivati alla baracca, Maria si accorse che la porta era stata forzata, senza riflettere la spinse ed entrò. Subito si sentì addosso due braccia che la strinsero. Beppe, che le era dietro, istintivamente si gettò sull’energumeno ma fu colpito alle spalle da un corpo contundente e cadde per terra svenuto. “Lo hai ucciso, farabutto, assassino” gridò la ragazza. Sulla porta apparve un uomo di circa cinquant’anni, alto , barbuto, che avendo sentito gridare si era avvicinato “Presto don Lillo , presto” gridò Maria. Alla vista di quell’uomo i due lasciarono la ragazza e guadagnarono la porta: “Li hai trovati, lo so che li hai trovati, puttanella. Ritorneremo”.
“Ma chi erano? che volevano?” disse con un vocione rauco classico dei fumatori incalliti Lillo.
“Era quello stronzo di mio zio e un suo degno compare” disse la ragazza piangendo e toccandosi le parti doloranti. “Presto un po’ d’acqua per Beppe”, così dicendo cominciò a bagnare la testa del ragazzo che era disteso per terra, lo bagnava e lo accarezzava con lo sguardo sempre più tenero.
Lillo guardando quella scena, visto che il giovane cominciava a prendere conoscenza, preferì allontanarsi “ se non hai più bisogno di me, me ne vado, ho lasciato la pentola sul fuoco”. “Grazie disse lei” chiuse la porta e si precipitò su Beppe che stava riprendendo coscienza. Quasi istintivamente gli poggiò per l’ennesima volta la mano sulla guancia e quindi le labbra sulle sue; il ragazzo la cinse dolcemente. Dopo qualche minuto lei si staccò “Grazie per ciò che hai fatto, questo era un modo per sdebitarmi”.
Toccandosi la testa sulla quale era spuntato il bel bernoccolo che lasciava uscire anche un po’ di sangue, con fatica  chiese: “ma chi erano? Cosa avresti trovato?”
“E’ una sua fissazione. Quello è il fratello minore di mia madre; è mezzo sbandato, vive con un suo pari ed è convinto che qui ci sia  un tesoro”.
“Un tesoro”?
“si, dei soldi insomma, non ho ancora capito chi  li  avrebbe dovuto nascondere……. Ma tanto è matto”!
Il ragazzo si sedette sul letto, Maria accanto cercava di consolarlo, ma anche lei era dolorante. Beppe vistole alcuni lividi sulle braccia “ distenditi, fatti controllare, sono un medico, anche se non sto molto bene, ancora sono in grado di capire
La ragazza si spogliò lentamente e si distese sul letto in slip e reggiseno. Un sorriso malizioso si fissò sul quel volto e gli occhi luminosi erano un chiaro invito. Il giovane cominciò a sudare, quel corpo tenero, bianco e perfetto era una tentazione troppo forte. Le toccò le braccia e i polpacci là dove più visibili erano le tumefazioni, quindi si asciugò la fronte con le mani e disse: “ niente, non c’è nulla…….fortunatamente è tutto a posto… vestiti”.
“Ma come tutta qui la visita?”
“Senti Maria, ho un fortissimo mal di testa, non farmela scoppiare completamente. Vestiti, fai quello per il quale sei venuta qui e andiamocene, voglio medicarmi per bene questa ferita”.
La ragazza un po’ delusa, ma ugualmente contenta, fece ciò che Beppe le aveva chiesto. Quindi andarono nella farmacia più vicina, comprarono quanto necessario per la medicazione e si diressero verso casa , passando prima  in una bancarella di extracomunitari per comprare un cappello sportivo.
Lungo la strada il giovane ritornava con la mente a quanto era successo e cercava di valutare il suo stesso comportamento. Aveva fatto la figura del fesso o dell’uomo che cosciente delle minore età della ragazza era stato saggio?! Certo non aveva sottovalutato il fatto che Maria, vivendo in quell’ambiente, avrebbe potuto essere già emancipata ma era pur sempre minorenne e non conoscendola ancora bene , la prudenza era la prima cosa da usare.
“Sei venuto altre volte qui?”chiese la ragazza
No, perché?” rispose Beppe
“Da come procedi, mi dai l’impressione che sai già dove andare”
I due arrivarono speditamente a casa dove Michele sembrava li stesse aspettando.
“Ma cosa è successo”? chiese allarmato il ragazzo appena li vide.
“Nulla di grave” intervenne subito lei ” quello stronzo di mio zio che ancora insegue quella sua idea matta del tesoro” e così dicendo strizzò l’occhio a Michele.
Rapidamente informarono il giovane sull’accaduto, quindi passarono alla medicazione della ferita fatta dolcemente da Maria sotto le direttive del medico. Quindi Beppe, con in testa quel cappello, lasciò i due giovani.
“Quello ritornerà” disse Michele,” bisogna fare qualcosa; ha capito che abbiamo trovato i soldi. Per fortuna non sa quanti sono , ma ci inseguirà e ci renderà la vita difficile”.
“Ma non possiamo denunciarlo”? chiese la ragazza
“Si che possiamo, ma dopo due giorni sarà di nuovo  fuori e sarà peggio di prima. Bisogna trovare un’altra soluzione, una soluzione che ci dia tranquillità per sempre. Ora mangiamo qualche cosa, ci penserò”.
Il giorno dopo Maria che si sentiva già donna con le responsabilità di una famiglia sulle spalle, con un bel pò di soldi nei jeans andò al supermercato a fare spesa. Da quattro giorni ormai non andavano a scuola e i genitori di Michele continuavano a chiamarlo al telefonino. La risposta era sempre quella, “ non preoccupatevi, recupererò”.
Beppe era all’università come quasi ogni mattina. Rispose al telefonino: “ ah sei tu? Certo, sta andando tutto bene…….no, non ce l’ho fatta. Non dirmi che tu, invece…. e che si geloso! Fino ad oggi abbiamo fatto tutto insieme, ora però bisogna chiudere, la cosa sta andando troppo per le lunghe. Lei dov’è adesso? Ma sa chi sei? Ah bene. Certo, certo che siamo stati bravi ma anche fortunati. Va bene ora procedi, fai ciò che avevamo concordato”.
Dopo un paio d’ore la ragazza ritornò a casa, ma non riuscì ad aprire più il portoncino. Un rapido sguardo al cilindretto della serratura le consentì di capire che era stato cambiato. Bussò con insistenza, chiamò Michele. Niente nessuna risposta. Chiamò al telefonino: irraggiungibile.
Aspettò tutta la mattinata, finché decise di portare le borse nella sua baracca ed aspettare lì. Sicuramente Michele l’avrebbe cercata. Verso le tredici andò a trovare mamma che stava migliorando. Quella mattina, stranamente , non si era visto nemmeno Beppe. “Può darsi che abbia avuto da fare, un medico, anche se giovane, è sempre impegnato” disse Carmela.
In un bar vicino Beppe e Michele stavano mangiando una focaccia, sul tavolo due birre e due bicchieri. “ Ora che facciamo? Non possiamo mettere i soldi in banca.” disse Michele.
“Ma che banca.. mettà ciascuno e via. Ti ricordi eravamo seduti qui, quando venne Maria e sua madre a cercare il rigattiere. Lui era  qui a fianco e, ubriaco, disse che se non l’avessero smesso di trattarlo come un demente non avrebbe rivelato il nascondiglio dove teneva nascosti i soldi”.
“Ma sei sicuro che Maria non sa nulla di te”?
“Certo che sa tutto. Tutto ciò che io le ho detto. Le notizie necessarie per non trovarmi” rispose Michele
“ma non ha foto, telefono”?
“foto no, il telefono? L’ho cambiato, figurati con tutti quei soldi. Il vecchio l’ho schiacciato.”
“E se Maria ti denunciasse” chiese Beppe
Mi pare difficile che una ragazzina delle baracche possa far credere alla polizia che uno come me, ammesso che mi rintraccino, possa essere implicato in una favola di tesori nascosti. E’più semplice credere ad un ricatto da parte sua, non credi?” sentenziò tranquillamente Michele.” Anche tu però sei stato bravo, quei due anni di iscrizione in medicina ti sono serviti. Certo che se avessi continuato, magari oggi saresti un bravo medico. Ma dimmi come mai riesci a girare tranquillamente con il camice fra i reparti?
“ Ho ancora il tesserino di studente e poi con la confusione che c’è , andando raramente nessuno mi chiede chi sono e comunque non avrebbero il tempo di verificare”.
E tutto un bordello” concluse Michele.
“Intanto, per poco non mi ammazzava quel coglione dello zio di Maria”
“In tutto c’è qualche imprevisto” .
Maria era ritornata a casa. Scese la sera. Sembrava più buia del solito, la baracca più triste, più sporca, più spoglia; di Michele nessuna notizia.
Bussò alla porta il sig Lillo che, senza attendere molto, aprì e d entrò.
“Ah è lei don Lillo entri pure “disse la ragazza.
Ero venuto per chiederti notizie sulla salute di quel giovanotto che ha preso il colpo in testa.”
“Credo stia bene; però è da stamattina che non lo vedo”
“E’ da parecchio che lo conoscevi?”
“No, si è  presentato qualche giorno fa in ospedale, quando ho ricoverato mia madre”
“Ma come”? disse sorpreso Lillo “Se io l’ho visto gironzolare qui almeno un paio di volte in questo ultimo mese”
Maria si fermò a pensare. In effetti c’era qualcosa che non andava, troppe coincidenze, troppe confidenze improvvise, troppo affetto. Eppure sembravano due ragazzi educati, a modo, prudenti. Si, questa era stata la loro arma vincente. I modi educati a cui lei non era abituata. Quegli atteggiamenti dolci e desueti in quell’ambiente l’avevano ingannata.
Si sedette sul letto, riprovò per l’ennesima volta  a fare il numero di telefono di Michele:”il numero è inesistente”. Due grosse lacrime bagnarono quella minuscola tastiera.
Fra un singhiozzo e l’altro raccontò a Lillo cosa era successo.
“Tu e tua madre non potete rimanere sole come me” azzardò timidamente l’uomo” avete bisogno di qualcuno… di un uomo che vi protegga”.
Maria alzò gli occhi pieni di lacrime , lo guardò un attimo e poi aggiunse con un timido sorriso “ Ha provato mai a tagliarsi la barba ed a vestirsi più decentemente?”
Lillo divenne rosso dalla vergogna e sparì. Maria continuò a pensare e a cercare una soluzione per recuperare  quei soldi che suo padre bene o male aveva sudato, senza venire a capo di nulla. Era certa che una denunzia si sarebbe rivelata inutile e non sapeva come dare la notizia a sua madre.
Dopo circa un’ora, bussarono alla porta, andò ad aprire e sulla soglia vide un uomo pulito di bella presenza, alto, ben vestito . Dopo un attimo riconobbe Lillo “ ma porca miseria, si accomodi sembra un altro” disse meravigliata “ si giri, si faccia vedere”.
Lillo contento, non si tirò indietro e fece passerella, forse aveva abusato con il profumo, ma andava bene lo stesso. “Domani andiamo a trovare mia madre, vedrà sarà felice di vederla”.
Dopo una settimana Carmela, ormai fuori pericolo, lasciò l’ospedale e andò a vivere con Lillo per la felicità di Maria che si sentiva più protetta, mentre una televisione locale dava la notizia dell’arresto di una banda di giovani , figli dell’alta borghesia, dedita alle truffe. Fra le foto riconobbero Beppe e Michele. Tramite un buon avvocato riuscirono a recuperare ciò che rimaneva dei soldi, ancora un gruzzoletto sostanzioso che unito ai risparmi di Lillo consentì loro di acquistare un appartamentino in condominio. Finalmente una famiglia, una casa.
Dietro le tendine pulite di una finestra in legno con le persiane , Maria guardava lo stretto; quel mare che dalla baracca non avrebbe mai potuto vedere; il via vai dei traghetti che da cinquant’anni erano sempre gli  stessi anche se con qualche mano di vernice in più e poi  la Madonnina che domina l’ingresso del porto e, perplessa, leggeva “Vos et ipsam civiatem benedicimus”. Ricordava Michele che andava a trovarla nella baracca in bici. Era un bel ragazzo della Messina bene e, per andare da lei, pedalava tutti i giorni.    

FINE



LA TELEFONATA
         (racconto brevissimo)
                                                                                
«Pronto... Sei tu cara? Come stai? Che piacere sentirti».
Breve pausa, durante la quale la nostra amica annuisce e sorride.
«Sì sì, …no, non preoccuparti, tu non disturbi mai».
Sempre con il telefono stretto all’orecchio si alza e si muove per il locale nel quale si trova
«Sì? Non mi dire… quindi sei andata dallo specialista per quel controllo all’orecchio e che ti ha detto?»
Breve pausa.
«Allora adesso devi fare questa cura per quindici giorni? »
«Meno male che è una semplice otite, pensa se fosse stato come quella di tua sorella. Mi ricordo, sai, tutto quel liquido schifoso che le usciva dall’orecchio… due mesi di cura e pure forte…quante punture poveretta».
Altra pausa.
«Sì? Vero? Come mi di spiace. Certo deve essere un bel fastidio poveretto, lui che è abituato a lavorare come un mulo, certo …certo… ma cosa ha mangiato? Sai perché la maggiore causa delle emorroidi è l’alimentazione e per la verità tuo marito non è che si sa trattenere. Detto in confidenza quando si siede a tavola, come dici spesso tu, è un porco. E poi sapendo che soffre pure di coliciste, che ha il fegato ingrossato ed un pò diabetico, farebbe bene a trattenersi. Ah, senti, poi con la cura per quel disturbo ai polmoni cosa ha fatto? – pausa– Nulla? Quindi la notte non ti fa dormire per la tosse e… – aggiungendo una risatina maliziosa – …niente sesso! Sapessi quanto mi dispiace!»
Si risiede e accavalla le gambe.
«Certo, certo, hai ragione poverina. Sì, può essere un fattore genetico se anche tuo cognato ha gli stessi problemi… anche tuo suocero…? Allora è chiaro. Ah, tuo cognato in più ha un forte esaurimento? Allora è una cosa seria, ma il motivo?»
Breve pausa.
«No! Non ci credo; e come è successo? – il volto si fa serio e lascia trasparire un smorfia di meraviglia – Ma perché prima di versargli i soldi non si accertava… certo… ovvio. Ed ora non può più far fronte alle cambiali. Venticinquemila euro?! Caspita, sono una bella sommetta. No, no, io non posso, non ce li ho materialmente… altrimenti lo sai…»
Brevissima pausa.
«Come sto io? Guarda, adesso non posso parlare, sono nella sala di attesa del medico ed è pieno di gente, non è il caso che le mie cose personali le sentano gli altri. Va bene, ti saluto… è stato un piacere. Ciao Maria e auguri anche per tuo marito Franco e tuo cognato Gioacchino. Ciao».

FINE